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Cultura | 08 novembre 2018, 15:47

Laura Marinoni: per interpretare Ibsen bisogna essere “atleti dell’anima”

Al Teatro Stabile va in scena fino al 17 novembre "John Gabriel Borkman" di Ibsen, per la regia di Marco Sciaccaluga. Tra gli interpreti Gabriele Lavia, Federica Di Martino e Laura Marinoni, che abbiamo intervistato

Laura Marinoni: per interpretare Ibsen bisogna essere “atleti dell’anima”

La incontro nel camerino il giorno dopo il debutto, alle 17, quando il foyer del Teatro della Corte è già gremito di persone che, mezz’ora prima del previsto, aspettano di incontrare lei, Federica Di Martino e Gabriele Lavia (e sono così tanti che saranno spostati in platea). Dopo la prima dello spettacolo John Gabriel Borkman, per la regia di Marco Sciaccaluga, è appunto Laura Marinoni, affascinante e profonda, a spiegare come questa pièce di Ibsen – non tra le più famose e rappresentate, ma definita da Munch come “il più potente paesaggio invernale dell’arte scandinava” – rappresenti un’opera senza tempo, grazie ai suoi personaggi e all’amore perverso che li lega e caratterizza singolarmente. E proprio in nome di questo sentimento, nell’epoca in cui Freud dischiudeva al mondo la psicoanalisi e Nietzsche diffondeva la teoria Superomistica, il drammaturgo Ibsen delinea alla perfezione i tre personaggi, dei bipolari o poco meno, che pensano solo alla realizzazione del proprio obiettivo. E per essere interpretati, e soprattutto compresi, richiedono un “atletismo dell’anima” - come lo definisce Laura - cui solo grandi attori possono arrivare.

Come si sente dopo il grande successo della prima?

Come per tutte le prime c’è stata molta emozione, anche perché questo è un testo talmente complesso da richiedere moltissime prove e noi iniziamo ora a essere dentro il flusso, che è tragico e richiede un’energia superiore alla media. Tragico e grottesco, come dice Marco Sciaccaluga, perché i personaggi sono tutti egoriferiti, ma è lo sguardo dell’autore a mostrarci il paradosso delle relazioni famigliari malate. Quindi uno spettacolo al debutto ha sempre un margine d’incertezza, che però può farne il successo. Penso ci voglia ancora un paio di repliche perché si compatti tutto questo materiale, così pieno di sfumature.

Lei interpreta il ruolo, apparentemente terribile, di Gunhild, una donna che deve sopportare tradimenti di varia natura, la perdita della dignità e del rapporto con il figlio e la sorella. Come si fa?

Sul mio personaggio abbiamo lavorato in controtendenza rispetto alla tradizione. Gunhild è sempre stata vista, anche in modo superficiale, come quella dura e ossessionata dal figlio, e la sorella negativa tra le due. Ma è riduttivo pensare che la coppia di sorelle sia composta da una granitica e una fragile: ho cercato di trovare le fragilità anche in Gunhild e non è un caso che Ibsen abbia scritto che sono gemelle, perché probabilmente il loro è il legame più forte tra tutti quelli descritti e non a caso l’opera finisce con loro due, che restano sole e si abbracciano idealmente. In John Gabriel Borkman c’è quindi una straordinaria rete di relazioni ossessivo-compulsive che la rendono, anche grazie a questa versione, fedele al testo, una tragedia contemporanea. E recitando si capisce che per Ibsen non sono tanto importanti i caratteri singoli, ma la dinamica di coppia, qualsiasi sia, marito-moglie, madre-figlio, sorelle-sorelle. Questa è la grande bellezza, ma anche la difficoltà del testo, perché è facile cadere nei clichè, bisogna decostruire e ricostruire alla luce di come si vivono i personaggi.

A proposito di vivere i personaggi, quanto della freddezza scandinava, e quanto, invece, del calore mediterranei, sono presenti nella sua interpretazione?

Ognuno ha una storia personale e un Dna, e proprio perché io sono una persona molto istintiva e ‘calda’, mi ha divertito molto affrontare il personaggio di una donna che sembra abbia tirato su muri incrollabili di fronte a certi sentimenti. In realtà non esistono personaggi negativi e positivi e quindi cerco sempre di mettere qualche ombra in quelli positivi e viceversa. Ci vuole molta elasticità e apertura, specie se si recitano personaggi granitici. E questi sono granitici e negativi, quasi tutti, tremendamente egoisti ed egotici, ma hanno anche una statura tragica; infatti nella sua perversione Borkman ha un sogno da superuomo, e anche le due donne combattono per l’amore, anche se si tratta di un amore malato. Sono persone che hanno molto sofferto, soprattutto i personaggi femminili, quindi sono estremamente ciclotimici, aggrediscono per fragilità, ma hanno anche momenti di smarrimento. Bisogna entrare in questo atletismo dell’anima e non avere preconcetti. Ognuno di noi, senza fare autobiografismo, nella propria vita ha delle immagini, per esempio di donne come Gunhild, di persone che sembrano estremamente dure, chiuse, antiche, ma se riesci a entrare nel loro mondo interiore scopri che sono state devastate dalla vita. E il teatro deve restituire questo: un arcobaleno di sfumature, in modo che il pubblico non dia un giudizio, ma semmai si veda specchiato, e capisca quali sono i rischi delle relazioni e delle relazioni famigliari come in questo caso.

Al centro di tutto, in forme diverse, c’è l’amore per qualcuno o per un ideale.

Sì. Recitai in “Le lacrime amare di Petra Von Kant” di Fassbinder, che sostiene che l’amore è possesso. Ecco, il nostro dramma è che quando ci innamoriamo non proviamo altruismo, ma viviamo un rapporto di dipendenza tra vittima e carnefice e in Ibsen questo è messo in evidenza. Anche i più grandi amori, anche tra madre e figlio, possono essere così. Gunhild sento che è ‘pura’ perché per lei davvero quella del figlio è una missione verso il riscatto, ma in realtà lo sta uccidendo facendogli fare quello che non vuole. Anche per questo si tratta di una grande tragedia contemporanea.

Il ruolo di una moglie: è ancora attuale per come era concepito nell’800?

Sì, perché anche se alla fine dell’Ottocento una moglie in quelle condizioni era davvero senza speranza, oggi si tratta comunque di una vicenda che non si può dimenticare, perché non è solo questione di soldi, ma di non aver perso la propria autostima e chi la perde diventa malato, psicotico e cattivo. Per questo ho pensato, per esempio, allo scandalo di Strauss-Khan e al suo tracollo: donne come sua moglie vedono la vita cambia da un giorno all’altro e da principesse accanto a uomini ammirati, all’improvviso hanno l’esistenza travolta, come da un terremoto che distrugge la casa. E Gunhild, piena di dolore e vergogna, ha rinunciato per questo alla propria vita, stando sempre chiusa in casa, come il marito: sono due 'lupi malati' entrambi.

Anche il mondo della finanza sembra avere un fascino senza tempo, pensando a eventi realmente accaduti, come lo scandalo Lehman Brothers, che ha ispirato il romanzo, diventato anche testo drammaturgico, di Massini.

Sicuramente e infatti noi, attraverso i giornali e la storia, subiamo le notizie e veniamo a conoscere la trama della storia, ma non immaginiamo quante centinaia di persone ci siano dietro a questi tracolli e fallimenti, che si trascinano dietro tanti innocenti. In quest’opera, in cui ognuno parla dal proprio punto di vista, quello che fa Ibsen è molto interessante, perché se nel primo atto fa dire a Gunhild che rispetto a chi ‘ha perso solo i soldi’, ‘lei e la famiglia hanno perso tutto, nel secondo atto, invece, trovandosi faccia a faccia col marito, lo provoca sostenendo il contrario e accusandolo per aver fatto ricadere su tanti altri i propri errori.

Medea Garrone

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