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lavocedigenova.it | 04 gennaio 2019, 08:00

Gioacchino Costa ci porta “Sottopelle-Sottoterra”

La recensione del primo disco del giovane talento genovese

Gioacchino Costa ci porta “Sottopelle-Sottoterra”

Le parole: lui si che ci sa fare. Semplici, genuine, alcune comuni, altre di nicchia, belle, brutte, tristi, felici. Mai scontate, sempre perfettamente intrecciate tra di loro e dipendenti l’una dall’altra, come in una grande catena. Gioacchino Costa, in questo, è un vero poeta. Sono 11 i brani di “Sottopelle-Sottoterra” ma, onestamente, avrei voluto che fossero un centinaio. Il primo lavoro dell’artista genovese mi porta in giro, attraverso un itinerario pittoresco e pieno di colori, tra chiacchiere di paese, giochi di parole ed eleganti metafore.

Come se la mia mente fosse una tela bianca, lui dipinge le sue immagini più recondite attraverso una serie di sfumature precisissime. Giunta all’undicesimo brano capisco finalmente il senso del titolo dell’album. Sottopelle, perché racconta di sé, spudoratamente. Le canzoni entrano nel vivo delle sue sensazioni, anche se al primo ascolto sembrano descrivere contesti comuni; scavano sotto la sua pelle ed entrano nella mia. Sottoterra perché la semplicità fa parte di Gioacchino e Gioacchino stesso è semplicità. Ascoltarlo è un piacere che mi riporta alla concretezza della terra, mi apre la strada verso il contatto con essa. Non parla di viaggi lontani ma dei luoghi che lo hanno cresciuto e forse, questo, è il suo viaggio più profondo.

Il disco si apre con “Anna”, un brano che, dalle prime note, mi chiarisce subito il suo rapporto con la musica: in continua evoluzione. Le sonorità reggae che si uniscono al cantautorato e alla chitarra classica mi portano tra le vie di paese che sanno d’amore romantico parafrasato in modo semplice ma che, allo stesso tempo, rimane nascosto tra le parole. Un brano che, come molti altri di questo disco, sa dare i giusti spazi alle parti strumentali, lasciando l’ascoltatore da solo ad apprezzare la bellezza estetica della musica.

“Lo stesso giorno” mi colpisce per l’introduzione che unisce la classicità del pianoforte alla poesia, con la quale l’artista sembra rivolgersi in prima persona all’ascoltatore. Le parole - qui come nel resto dell’album - fanno centro: pure, vere, sempre scelte con una precisione matematica. Il testo, così, acquista la capacità di disegnare immagini nitide e vibranti nella mente. Le metafore, sempre molto comunicative, evocano pensieri e sensazioni personali, dando vita ad una continua poetica.

Con “Chiusi dentro” la musica si rinnova ancora: le sonorità di questo brano mi riportano alla memoria lo stile country, con una chitarra ballerina e leggere percussioni. Melodie che rallegrano e stimolano creatività. Qui più che mai, in un contesto di contaminazione artistica, mi attraversa lo spirito di Faber, con le sue brillanti doti narrative cantautorali unite alle sonorità innovative nate dal periodo sardo. Gioacchino me lo ricorda in modo originale e mai come un doppione.

Ne “La filastrocca del mulino” torno un po’ bambina e ritrovo piacevolmente la vera essenza della filastrocca. Il brano arriva dritto al cuore grazie alla melodia che, con poche note, riesce a trasportarmi in un luogo che sa di bambini, di giochi all’aria aperta e di merende pane e marmellata. La filastrocca in musica mi riporta all’infanzia senza mai essere infantile e anticipa un’altra canzone che, nuovamente, mi fa assaporare l’aspetto ludico della musica. Si tratta di “Burattini”. L’introduzione è la parte che preferisco: lo stile anni ‘20 che si mescola alle sonorità balcane mi accolgono in un vero e proprio circo dove lo spettacolo è al centro della scena e tutto sembra incantato. Fisarmonica, fiati e trombe stimolano la mia immaginazione così come alcune parti del testo che ne sottolineano il folklore.

“Serena-Mente” è decisamente il mio brano preferito. L’intro strumentale è già un concentrato di emozioni a se stanti: le sonorità particolari dell’handpan sono incredibili e regalano un’atmosfera irreale. Si tratta del brano più lungo del disco che, attraverso i suoi 7 minuti, mi guida in un viaggio al centro dell’anima. Una canzone fatta di dettagli, come le parole che profumano di Genova e di quella cadenza che spesso ci dimentichiamo di avere. Serena-Mente, perché descrive la serenità di chi ha capito che l’amore è un gioco di cui l’uomo, nonostante tutti i tentativi, non ne conoscerà mai del tutto le regole.

Lo abbiamo capito, Gioacchino Costa è soprattutto poesia. Lo dimostra con una continua fantasia, in un saliscendi di emozioni grazie alle quali riesce sempre a raccontare e a raccontarsi. Musica e parole, parole e musica: sembra banale ma non lo è affatto. In “Sensazione” la descrizione è precisa, delineata, chiara e personale, dove l’artista offre la sua ma l’ascoltatore legge la propria. Delicatezza ed energia, forza e remissione. La sensazione passa dall’astratto al concreto.

“È tempo di te”, un titolo che mi piace particolarmente. L’introduzione mi porta in mezzo alle persone, con il loro chiacchiericcio che mi affolla la mente. Ma basta poco per sentirmi di nuovo a tu per tu con la musica, come in una confessione privata e silenziosa in cui l’artista si rivolge solo a me, dedicandomi un intimo pensiero. Gioacchino diventa un amico, un consigliere, uno sconosciuto che sembra conoscermi più di chiunque altro. Vuole arrivare alle persone. E ci riesce molto bene.

Il nono brano si intitola “Gira l’Italia” e ha tutta l’aria di essere l’anima felice e spensierata dell’intero disco, pur mantenendo quella vena romantica che l’artista non abbandona mai. Una canzone che, dal vivo, - immaginandola in una calda serata estiva - ha la capacità di coinvolgere il pubblico con il suo ritmo e le sue parti strumentali incalzanti, pure figlie della vivacità. Ritrovo qui le canzoni di una volta, quelle che arrivano dritte al petto e rimbombano nella cassa toracica, senza farti smettere di sorridere. Il significato del brano arriva ascolto dopo ascolto, in un bellissimo viaggio tra caricature e dettagli pieni di colore.

“Mancami”, un invito? Un ordine? Un consiglio? Non importa. Il brano è una continua figura retorica, tra metafore, paragoni e ossimori. Di nuovo, la capacità di descrivere il mondo e le sue situazioni emerge viva e sempre nuova. Il filtro che Gioacchino mette sulle cose non le rende mai distanti dall’ascoltatore ma, in qualche modo, le avvicina e le rende più vivide e interessanti. L’armonica, un suono che oggi va perdendosi, è quasi una seconda voce e conferisce al brano una grande serenità.

A chiudere la playlist è “Piccon Daghe Cianin”, il brano interamente in genovese che non va descritto ma, semplicemente, ascoltato. Cerco di capirlo appieno ma più mi concentro più mi perdo nella mia città.

Giovanna Ghiglione

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