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Cultura | 12 febbraio 2019, 18:00

Le "Vite sottosopra": quando follia e creatività sfociano in scrittura e teatroterapia

Qual è il confine tra follia e sanità? E cosa sono l’originalità e la diversità? Ce lo racconta, attraverso il proprio romanzo d'esordio "Vite sottosopra", il pedagogista genovese Andrea Contini

Le "Vite sottosopra": quando follia e creatività sfociano in scrittura e teatroterapia

Sullo scaffale della libreria del Porto Antico le copie campeggiano nel settore “Novità. I libri più venduti” accanto, tra gli altri, a “La lettrice di Cechov” di Giulia Corsalini. Si tratta di “Vite sottosopra” (I Robin&Son ed.) del genovese Andrea Contini, pedagogista, velista e novello scrittore. Che esordisce, appunto, con questo romanzo che trae spunto dall’esperienza personale che vive nella struttura psichiatrica in cui lavora. Il protagonista, Paolo, è in un momento di crisi esistenziale: i pazienti sanno che anche lui è in difficoltà? Qual è il confine tra follia e sanità? E cosa sono l’originalità e la diversità? Paolo lo scoprirà – e si riscoprirà – attraverso un percorso intimo e personale, che, anche grazie alla teatroterapia, lo porterà a una nuova esistenza e a nuove relazioni. I diritti d’autore del romanzo sono devoluti al Gruppo Stranità del Teatro sociale dell’Ortica.

È il tuo primo romanzo: da dove nasce l’idea?

Dal fatto che lavoro all’interno di una struttura, una Rsa psichiatrica, come pedagogista e mi sono interessato alle dinamiche interiori che possono crearsi non solo nel paziente, ma anche nell’operatore. A volte si tende a separare sano e malato, ma in realtà anche l’operatore porta in sé un universo emotivo di cui deve farsi carico e in certi momenti della, anche con il carico delle proprie emozioni, deve riuscire a stare in un contesto difficile. Quindi il romanzo parla di queste difficoltà e di come, nonostante tutto, con le proprie competenze, riesca a superarle.

Quanto c’è di autobiografico quindi?

Una parte è autobiografica, una parte è una costruzione narrativa fatta per portare il lettore a una riflessione e a diversi rimandi che non si sa come vadano letti: ognuno li interpreta a modo proprio. C’è una ciclicità negli incontri che Paolo, il protagonista, fa con i personaggi e nell’accadere degli eventi, che possiamo ritrovare anche nella nostra vita. Sono incontri casuali o aneddoti di esistenze altrui che scaturiscono dal niente, ma che possono sorprenderti e farti pensare ad altre connessioni da cui nascono competenze e resilienza.

A proposito di resilienza: il protagonista reagisce anche con la teatroterapia: va bene per tutti?

Il teatro è un contesto in cui, anche se si finge, per certi aspetti, di provare emozioni, queste emozioni si provano davvero, per cui si tratta della messinscena della verità della persona. Significa allora che è valevole per ognuno come terapia, anche se dipende dagli stadi della vita e dalle situazioni del singolo, perché va ad aprire all’interno di un gruppo di lavori scenari intimi ai quali non si è sempre pronti. Inoltre ha anche un aspetto ludico: il personaggio, Paolo, attraversa un periodo della propria vita in cui decide di sparigliare le carte, uscire dall’usuale, dandosi al teatro comico e scoprendo delle verità, per esempio, stupendosi di come riesce a essere affine alla teatralità e alla comicità. Questo accade perché durante il percorso esistenziale possiamo riconoscerci in arti mai provate prima: è il fascino della vita, lasciare la strada sicura, specialmente in momenti difficili, e sperimentare nuovi contesti. Uscire dai sentieri sicuri e vedere che cosa accade, per Paolo, che lavora anche accanto alla follia, è un modo per mettersi in gioco anche nella vita privata.

Per Freud i deliri sono una forma di creatività: come esprimere la follia di ognuno attraverso le forme d’arte?

Sicuramente le manifestazioni di follia portano a momenti di difficile gestione, ma anche a novità e verità, attraverso collegamenti inusuali di parole e di forme. Per follia, quella insita in ognuno di noi, se intendiamo la dimensione del caos, quella più irrazionale, meno coartata, penso possa dar vita a una maggior consapevolezza di noi stessi. E appunto l’arte, nelle sue forme, può aprirti alla relazione con l’altro e ad altri modi di sentire te stesso e di filtrare emozioni. Il teatro, per esempio, significa condividere emozioni, saper creare una scena e un ruolo e saperlo provare a livello emotivo. Però, anche lì, ci sono setting in cui non si è del tutto liberi. Nella comicità, invece, l’impulso, l’insight, la battuta e l’incontro con ciò che può smuovere la risata, sono qualcosa di misterioso e che indicano anche la fiammata dell’intelligenza.

A 40 anni dalla legge Basaglia: che cosa è cambiato e che cosa va ancora cambiato?

Rispetto a 40 anni fa c’è una presa di consapevolezza della malattia mentale più approfondita, perché la scienza ha fatto progressi. Il rischio che vedo è che, seppur ci sia una gran progressione, si rischi, con i tagli alla sanità, una richiusura di queste persone dentro le strutture. Perché sono importanti, ma se non ci sono finanziamenti i pazienti rischiano di fare riabilitazione solo al loro interno, mentre la riabilitazione avviene stando all’esterno, in situazioni non definite, dove si può incontrare la società in modo trasversale e non in modo blindato e prestabilito, organizzando le uscite preventivamente. Quindi se mancano i soldi la riabilitazione solo nella struttura è un controsenso perché si inizia dentro, ma poi si deve stare fuori.

A proposito di uscite: che cosa fa esattamente un pedagogista in una struttura psichiatrica?

Il pedagogista non è solo una persona con un titolo di studio, ma una persona che ha attraversato sentimenti e vicissitudini più o meno pesati nella propria vita, e queste si mettono in gioco, creando così una relazione non solo riabilitativa, ma anche uno stare insieme e fare determinate attività che sono quelle che portano all’esterno. Dall’interno, così, si passa all’esterno: è difficile per un paziente psicotico, perché è un mondo sconosciuto, pericoloso, che può provocare squilibrio e allucinazioni per chi non ha difese e ha bisogno di un sostegno. Se il pedagogista è corazzato e ha già fatto un percorso con se stesso, è in grado di trasmettere se stesso al paziente, facendogli comprendere come anche lui stesso si sia messo in gioco nella società. In questo modo prova a farlo anche il paziente, capendo che anche il suo operatore lo ha fatto ed è la cosa più naturale del mondo. Questo è il lavoro che si può fare. Naturalmente poi si lavora in equipe con psichiatra e psicologo; il pedagogista, però, porta molta “pancia”. La mia struttura ha 44 pazienti psicotici gravi: le loro biografie parlano chiaro, sono profondamente segnate, quindi un operatore che lavora in un ambiente in cui si ha a che fare con la psicosi deve portare fuori qualcuno che sta perdendo la speranza o l’ha persa o ha perso competenze e si trova in difficoltà a fare ogni passaggio.

È dei giorni scorsi la notizia di una donna, a Parigi, che, uscita da un reperto psichiatrico dopo 5 anni di ricovero, ha dato fuoco al palazzo. Come funziona in Francia?

Ero stato a fare il Dottorato di Ricerca a Parigi, e lì mi avevano detto di vedere positivamente la nostra Legge Basaglia e le comunità terapeutiche, cioè le strutture per la riabilitazione. In Francia, infatti, non hanno la stesse rete che esiste nel nostro sistema. Una persona può fare un periodo in psichiatria e poi uscire ed essere sempre seguita per tutta la vita. L’episodio non è indicativo del fare bene o male; per un caso di cui sentiamo parlare, ce ne sono molti altri positivi che non conosciamo.

Per Leader, psicoanalista, la domanda che l’analista dovrebbe farsi rispetto al paziente è: “a cosa posso servigli"?

Estendendola anche ai pedagogisti, cosa ne pensi? Mi ci ritrovo. Dopo 6 anni in una struttura psichiatrica, penso che come noi usiamo il nostro lavoro per esprimere noi stessi, anche il paziente utilizza noi nella relazione per esprimere dei malesseri. Certo non si può parlare, generalizzando, di terapeuta e paziente od operatore e paziente, perché quello che si crea è il tipo di relazione che ha una specificità e una rarità, perché si tratta di una relazione in cui entrano in gioco l’aspetto affettivo e la competenza professionale, insieme a una presa in carico vera e sincera della persona, perché ti interessa la sua vita sul serio. Effettivamente si può creare un’alchimia e un’alleanza all’interno della relazione terapeutica, che, in questo modo, può portare davvero a fare dei passi avanti. E penso sia vero che ognuno utilizza l’altro, nel senso che vediamo chi sono io, terapeuta, e chi sei tu, paziente, e che cosa possiamo fare insieme, In questo percorso il terapeuta è chi mette dei paletti, per certi aspetti, e indica una possibile strada: in uno sviluppo particolare c’è anche chi può iniziare ad aprirsi e a togliere questi paletti; se invece parliamo di psicosi grave e cronicizzata, le possibilità sono minori, lo spazio di autonomia va giocato con grande sensibilità e delicatezza, perché purtroppo è anche facile regredire nel percorso e nella relazione.

È vero, come ha detto Massimo Recalcati, che chi si occupa di “casi umani” è perché è stato lui stesso un “caso umano”?

Assolutamente sì. Ero un ribelle e un inquieto da piccolo. Siamo tutti casi umani e penso che chi non crede di esserlo sia il primo ad ammalarsi!

Alla fine del percorso Paolo che cosa capisce?

Paolo incontra tante persone e situazioni diverse. Tra le persone ci sono anche i suoi pazienti e si domanda se loro capiscono che anche lui sente il vento sferzante della sofferenza. La cosa affascinante è che uscendo dal sentiero consueto, tramite la teatroterapia, la psicoterapia e gli incontri casuali che fa, la vita gli si apre, proprio quando sembrava chiudersi. Attraverso gli altri trova quel cocktail di aspetti che nemmeno lui sa definire, ma che mostrano la creatività altrui; questo significa comprendere come la moltitudine delle persone viva la vita in modo diverso e originale. Non c’è paura della diversità e dell’originalità, ognuno declina con le proprie note musicali l’esistenza e Paolo, senza rendersene conto, prende da tutti loro. Si tratta di un percorso di resilienza nato in un momento di difficoltà, e in cui decide di uscire da quel posto abituale in cui stava affondando. Bisogna avere il coraggio di andare oltre la propria zona di comfort, perché anche se ti dà tranquillità, a volte ne devi uscire per salvarti. Paolo fa tanti incontri, decostruendo le proprie sicurezze, per esempio a teatro, e scoprendo di stare lo stesso in piedi.

Medea Garrone

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