- 01 dicembre 2019, 14:00

La poesia delle calate

I luoghi che frequentavo più spesso erano quelli dedicati alle merci varie, soprattutto il bacino di Sampierdarena, con i suoi pontili dal sapore coloniale: Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia...

La poesia delle calate

(…) Dopo un paio d’anni (erano frattanto arrivati gli Ottanta), venute meno le ansie e le paranoie che mi derivavano dal fatto di trovarmi in un mondo del tutto nuovo (e davvero estraneo per un fresco diplomato di liceo classico), riuscii finalmente ad apprezzare gli elementi di contorno, quelli non strettamente funzionali all’apprendimento. I luoghi che frequentavo più spesso erano quelli dedicati alle merci varie, soprattutto il bacino di Sampierdarena, con i suoi pontili dal sapore coloniale: Etiopia, Eritrea, Somalia, Libia... Il “vecchio” comunista che c’era in me prendeva atto, un po’ dolorosamente, di ritrovarsi a lavorare su strutture che duravano dai tempi del duce. E che dopo di lui avevano ricevuto ben poche attenzioni, questo va detto!

Più raramente finivo al Molo Vecchio, davanti ai Magazzini del Cotone. Mi capitava soprattutto con le navi argentine dell’ELMA: sia perché a volte avevano del cotone da sbarcare, sia perché lì c’era un freddo canaglia e la carne congelata, uscita dalle celle frigorifere, “pativa” meno... Così almeno pensavo io, che invece il freddo lo pativo un sacco.

Avevano un bel dire, gli esperti, che porta Siberia aveva questo nome perché nei tempi antichi vi transitavano le “cibarie”… per me l’origine del nome era molto più chiara, diretta, evocativa! E ne avrei avuto conferma pochi anni dopo, fra gli Alpini, quando i -15° della Val d’Aosta si sarebbero dimostrati più sopportabili dei +2 o +3, ventosi e fradici di quella zona (e in genere di tutto il porto). Ma quella è un’altra storia.

 D’inverno “scappavo” letteralmente tra i bar e il mio scrittoio riscaldato da capo-commesso, a bordo; oppure tra lo scrittoio e la coperta della nave (nome quanto mai inadeguato, in quei frangenti), se mi serviva qualche delucidazione dallo stivatore.  

Nei mesi migliori, invece, in primavera inoltrata e tanto più d’estate, quella parte del porto rivelava tutta la sua magnificenza; ma anche la decadenza, che comunque aggiungeva alla visione accenti poetici: soprattutto le sere d’estate, quando l’aria rinfrescava e il sole, alla stessa altezza della Lanterna, assumeva e donava alla parte più antica del porto luci e colori, che ispiravano prima di tutto una quiete serena, resa ancor più dolce dal lento e sommesso sciabordio delle acque.

Tante volte, passeggiando tra il Molo Vecchio e Caricamento, considerai un vero sacrilegio che ai genovesi fosse negata quella vista, soprattutto a causa dell’alto muro di cinta che nascondeva la zona del Mandraccio e di Calata Cattaneo, persino a chi vi transitasse a pochi metri. Un sacrilegio, perché in fondo quel porto apparteneva a tutti i genovesi, anche a quelli sprovvisti del famigerato “permesso d’accesso in porto”.

E a volte mi piace pensare che Renzo Piano abbia avuto pensieri simili ai miei, quando decise di fare alla sua città il regalo più bello e prezioso.

Imparai ad apprezzare la lentezza. Da quelle parti il tempo era denaro, certo, ma i movimenti erano determinati prima di tutto dalla seguèssa, di fronte alla quale perfino l’armatore s’inchinava; ma anche da una saggezza che sapeva di antico. Perché era la saggezza di chi conosceva i limiti del corpo umano, del proprio fisico, per quanto possente. E sapeva dosare gli sforzi in modo da evitare i malanni, le fratture, le slogature, le contratture. Solo i malanni ad effetto immediato, sicuramente: perché tante, tante volte, praticamente ogni volta che c’era del congelato o del caffè, alla fine dei turni vedevo quegli uomini scendere a terra piegati dalla fatica, non importa se scendevano dalle stive o dai planceri posizionati a terra. E sono certo che prima o poi il loro fisico gli avrà presentato il conto.

La saggezza, certo... Ma a volte fra i camalli c’era qualcuno un po’ troppo saggio! I suoi compagni però lo sapevano, e allora ogni tanto gli facevano gli scherzi, mettendosi d’accordo per far finta di sollevare un pezzo, e poi lasciarlo cadere addosso proprio a quello che invece “faceva finta” un po’ troppo spesso (lasciando cioè che fossero gli altri a sollevare la maggior parte del peso).

Quelli erano i momenti in cui diventavo invidioso: di quelle amicizie complici, di quell’accettarsi scherzosamente per ciò che si era e che si conosceva bene, a memoria. Non mi fregava un accidente dei soldi che guadagnavano in più, rispetto a me. Ma quelle complicità, tra l’altro maturate proprio in un posto che iniziavo a considerare sacro, mi mancavano terribilmente.

Perché i camalli, al di là della fatica, stavano bene insieme; spesso si divertivano. In tanti anni avrò assistito a una decina di litigi, mai degenerati in qualcosa di fisico. La discussione terminava talvolta con un silenzio rancoroso; più spesso era chiusa da una risata collettiva, dopo una battuta salace.

Le battute migliori del resto erano quelle del lunedì: Genoa e Doria, subito dopo o travaggio, erano la principale fonte di discussione (e di prese in giro).

Va detto che in porto, parlando delle squadre cittadine, i termini “discussione” e “presa in giro” non li avreste mai sentiti. Più che altro, ecco, si trattava di... pigïase p’ou cü e menase o belìn.

Però quei rapporti erano e restano una cosa importante, quasi una cartina di tornasole del senso di civiltà e di decoro che animava quella gente. Soprattutto se confrontato con eventi analoghi che accadevano (e, ahimè, continuano ad accadere) fuori dal porto. 

Prima di tutto va detto che il “menaggio” era autentico. Di certo, quando la propria squadra perdeva (e soprattutto quando l’altra contemporaneamente vinceva) il lunedì non andavi a lavorare volentieri: sapevi già cosa ti aspettava. Al punto che alcuni, in occasione di una sconfitta al derby, prendevano un giorno di ferie.

Io, seguendo anche in questo le orme paterne, ero genoano; ma già all’epoca ero un tifoso “tiepido”, o meglio intiepidito da una certa tara atavica dei presidenti della mia squadra, che regolarmente vendevano i migliori giocatori della stagione appena conclusa. Proprio nel ’78, un anno prima di iniziare a lavorare, avevo fatto a me stesso una promessa: “Se vende anche Pruzzo, non andrò mai più allo stadio”. Pruzzo fu regolarmente ceduto alla Roma (dando di lì a poco un sostanziale contributo alla vittoria dello scudetto). E io non andai più allo stadio. 

Questo non significa che non soffrissi ad ogni sconfitta del “Grifone”. Per non parlare, ovviamente, delle sconfitte nei derby. Ma insomma, anche in quel caso ero “tagliato fuori”: erano ancora troppo pochi i portuali con i quali avessi sufficienti confidenza e amicizia, per subire il privilegio dei “menaggi”.

Potevo però assistere a quelli degli altri e... registrarli, a futura memoria. La maggior parte erano abbastanza scontati: i genoani per lo più davano ai doriani del “gabibbo” (termine dialettale derivante dal nome arabo “Habib”, assai diffuso fra i portuali di Massaua (Eritrea), dove l’armatore genovese Rubattino aveva stabilito un porto nell’Ottocento, nucleo originale della futura colonia italiana.) E c’era un nucleo di verità, perché quando Genova divenne mèta d’immigrazione nel secondo dopoguerra, molti meridionali, volendo scegliere una squadra di calcio locale, forse per meglio integrarsi, optarono per la Sampdoria: che in quel periodo era decisamente “messa meglio” del Genoa.

I doriani avevano gioco facile nel rammentare ai “cugini” che i fasti della loro squadra, continuamente rievocati, risalivano all’anteguerra (e non diciamo quale guerra...).

In certi casi il menaggio poteva diventare più raffinato e originale, come ad esempio quando i doriani si domandavano con aria smarrita e sbigottita (ma con un sogghigno beato sulle labbra) dove accidenti si trovasse Montevarchi, la cui squadra aveva “sbancato” Marassi nell’anno del Genoa in Serie C.

Oppure quando, dopo la sconfitta nella finale di Berna in Coppa delle Coppe, i genoani coniarono lo slogan “Amaro a Berna”.

Ma uno degli atti d’amore (calcistico) più belli e memorabili, lo compì proprio un mio collega, Marco, stivatore esuberante e spesso redarguito da mio padre perché considerava il lavoro come forse andrebbe considerato: uno strumento per vivere, e non una missione (come invece lo considerava il mio genitore). Magari qualche volta in effetti commise una piccola leggerezza; ma io gli volevo bene, perché era un uomo affettuoso e in pace col mondo, tra l’altro sempre pronto a trovare il lato divertente delle cose.

Su un’unica cosa Marco scherzava poco: il Genoa. Il Genoa era per lui una ragione di vita, una fede assoluta, un’amante in grado di portarti al settimo cielo e di sprofondarti nella più nera disperazione.

Era uno di quelli che dopo una sconfitta nei derby si prendevano una feria, magari anche due (magari una settimana).

Marco diede il meglio di sé quando accadde un evento epocale: il Genoa, miracolosamente in Coppa Uefa, andò (prima squadra italiana) a “violare” l’Enfield Road, il mitico stadio del Liverpool. In quei giorni noi stavamo lavorando su una nave che sbarcava tronchi all’Idroscalo, proprio sotto la Lanterna. Per combinazione, in “testata” all’Idroscalo vi erano undici bitte. Undici bellissime bitte, con la tipica forma tondeggiante, tutte contrassegnate con un bel numerello di ottone dorato. Quando, il mattino successivo alla storica vittoria, arrivammo sottobordo alla nave, scoprimmo le undici bitte appena ridipinte: ognuna era mezza rossa e mezza blu. Ed il numerello dorato spiccava meravigliosamente, in cima e al centro di ogni bitta: una bellissima squadra di calcio, perfettamente schierata ad attenderci (noi; ma anche i doriani, ça va sans dire...). Marco se la ghignava beato. 

Certo che visti (ahimè) dall’esterno e soprattutto nel lungo periodo, ’sti portuali rossoblucerchiati mi ispiravano più che altro una serena contentezza. Prima di tutto perché non sconfinavano mai nell’offesa personale, nell’insulto. E poi perché questo continuo “menaggio” ricordava molto da vicino quello degli adolescenti, quando (contrapposti in gruppi di maschi e femmine) non fanno altro che denigrarsi e prendersi in giro. Facendo finta di non sapere quanto abbiano bisogno gli uni degli altri. (...).

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Zenet / Filippo Rissotto

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