Cultura - 08 febbraio 2020, 17:00

Fabio Armiliato, l'eroe romantico (e genovese) del melodramma’, torna a casa con ‘Adriana Lecouvreur’ e un inno inedito alla città

Il tenore sarà in scena al Carlo Felice il 13 e 15 febbraio. L'intervista per l'occasione

Fabio Armiliato, foto di Antoni Bernad

Fabio Armiliato, foto di Antoni Bernad

Acclamato nei principali teatri d’Opera, dalla Scala di Milano all’Arena di Verona al Metropolitan Opera House di New York, torna a casa, al Carlo Felice, e lo fa con un’opera davvero speciale. È Fabio Armiliato, il tenore genovese di fama internazionale (Ambasciatore di Genova nel mondo, ha cantato diretto da Woody Allen in To Rome with Love), che ancora una volta darà la voce – e che voce – a Maurizio in Adriana Lecouvreur (in scena il 13 e 15 febbraio). Un’opera e un personaggio cui è particolarmente affezionato, non solo per la prima interpretazione del 1994 al Teatro Colón di Buenos Aires, ma anche e soprattutto per le numerose produzioni realizzate con la celeberrima soprano genovese Daniela Dessì, compagna sul palco e nella vita, purtroppo scomparsa, di cui il Maestro parla con commovente delicatezza. Come commovente è l’amore che prova per Genova, per la quale, ci ha anticipato, presto canterà alla cittadinanza GenoVa Vita, l'inno composto da Maurizio Martellini.

Che cosa significa per lei tornare al Carlo Felice e in particolare con Adriana Lecouvreur?

Significa tornare nel teatro dove sono nato professionalmente, iniziando come artista del coro, quando ancora si chiamava Teatro Margherita, e poi interpretando ruoli da novizio fino a quello più importante nella Bohème alla fine degli anni Ottanta. Da allora il Carlo Felice mi ha sempre accolto con grande affetto e stima: nel tempo qui ho cantato Norma e Tosca, nel 2010, con Daniela Dessì, poi Madama Butterfly, Fedora e oggi Adriana Lecouvreur, che sento molto mia, perché nel 1994 ho debuttato nel ruolo di Maurizio, diretto da Michelangelo Veltri, a Buenos Aires, al Teatro Colón, che era il tempio della lirica mondiale. E poi si tratta di un’opera cui sono molto affezionato, perché l’ho interpretata sempre con Daniela fino alla produzione di Barcellona del 2013.

Si tratta di un’opera Verista, ma si ambienta ai primi del Novecento, nella Belle Epoque, e non più nel ‘700: quanti riferimenti all’epoca contemporanea ci sono?

In effetti è un’opera ambientata nel Settecento, ma che, trasposta all’epoca della Belle Epoque, suggerisce una trama che potrebbe essere attuale, anche se oggi sarebbe più facile trovare il colpevole grazie ai Ris: capire che le violette sono state avvelenate da qualcuno e risalire alle impronte digitali del colpevole, così che non sarebbe rimasta impunita la contessa Bouillon! (ride n.d.r.). E poi c’è la gelosia: un uomo conteso tra due donne, che è rarità nell’Opera, perché in genere è la donna a essere contesa tra tenore e baritono.

Quanto mette di sé nei personaggi che interpreta?

Ci metto sempre tutto me stesso, perché sento di dover dare molto al pubblico e al personaggio, il che fa scaturire una foga interpretativa che devo tenere sotto controllo. E nel caso di Adriana Lecouvreur Maurizio è un po’ guerriero e un po’ romantico, come Cavaradossi, pittore e patriota, e Andrea Chénier, poeta e soldato: hanno un fervore che sento calarmi perfettamente addosso: quando nel personaggio c’è qualcosa che fa parte della propria sensibilità si riesce a dare il meglio e questo il pubblico lo percepisce.

Infatti è stato chiamato l’“eroe romantico del melodramma”: le piacerà, quindi, questa definizione di sé.

È una definizione bellissima, che fa riflettere su quanto abbiamo bisogno, oggi più di prima, di sognare, come mi capitava quando, da ragazzo, ascoltavo queste melodie immortali: toccano corde sempre vive. Se invece si perde l’immaginazione, si perde la capacità di essere introspettivi. La chiave di lettura dell’Opera lirica, che è un intreccio di parole, musica, poesia e interpretazione, è, infatti, questa: capire prima di tutto se stessi e poi gli altri. Essere un ‘eroe romantico’ aiuta a farlo.

Come ha vissuto questi quasi quarant’anni di carriera? E che cosa significa per lei essere arrivato a questo successo mondiale?

Sono contento del grande successo che ho avuto in tutti questi anni, in cui ho calcato tutti i palchi del mondo, ma la popolarità che mi ha dato il film di Woody Allen (To Rome with Love n.d.r.), non me l’ha data nessuno! Rappresenta il corollario di questi quarant’anni, grazie al quale mi riconoscono perfino nelle metropolitane all’estero. Una lunga carriera mi permette di fare delle riflessioni sul mondo dell’Opera, di cui vedo i cambiamenti e le nuove generazioni, che si affacciano in questa professione con modalità diverse rispetto alla mia, anche badando più al successo che all’approfondimento del nostro lavoro, che va sempre confrontato con chi l’ha fatto prima. Ma penso anche al ruolo che l’Opera ha nella società, cioè quello di aiutarla a stare meglio. La lirica è rimasta l’unico spettacolo dal vivo che segue i canoni della tradizione: senza artifici, né microfoni né una base musicale creata prima. Ed è grazie a queste caratteristiche che si è mantenuta come un’oasi, rispetto a tanta cacofonia che oggi abbiamo nelle orecchie. Per cui penso che da un lato possa aiutare a trovare valori che si stanno perdendo, e che da un altro sia anche un importante indotto, perché piace, e piacendo muove l’economia delle città. Inoltre ritengo che con la globalizzazione si tenda ad appiattire ogni cosa, rendendo tutto uguale, anche la musica. Mentre la bellezza sta nella differenza: la lirica non può diventare pop né musica da televisione, ma va proposta così com’è, in modo che possa aiutare anche la cultura del nostro Paese, che ha bisogno di trovare nuova linfa.

A proposito di contaminazioni: a lirica e tango ha pensato lei con Recital CanTango, ma quindi non vede favorevolmente lirica e pop? In questi giorni al Festival di Sanremo è in gara Alberto Urso, che è un cantante lirico, mentre il trio del Volo ha vinto anni fa: i giovani cantanti lirici stanno contribuendo a fare conoscere maggiormente questo genere al pubblico loro coetaneo

Si tratta di un tema controverso, già iniziato da Pavarotti con il Pavarotti and Friends, e su cui io, che faccio parte della Nazionale Italiana Cantanti, mi sono confrontato con i colleghi, che sono grandi professionisti, ma quanto sia possibile diffondere la lirica col pop è difficile da dirsi, perché si rischia la volgarizzazione anziché la divulgazione. Chi fa contaminazione, come il Volo, chi usa la voce impostata, dovrebbe penare meno alle operazioni commerciali e dire che l’Opera si fa in teatro. Chi l’ama dovrebbe dedicarcisi e fare capire quanto è bello vivere dal vivo lo spettacolo, riabituandosi al bello, senza microfono e senza alterazioni della voce. Invece la mia esperienza col tango serve per fare capire che l’opera lirica è madre di tutte le forme musicali - comprese le canzonette - e il tango è una delle prime forme musicali contaminate dalla lirica. Quindi la radice di tutto è la nostra cultura musicale operistica, popolarissima nell’800, quando è nato il tango, che tanti lo hanno cantato, come il grande tenore leccese Tito Schiva, su cui ho creato lo spettacolo.

Pensando al panorama attuale, chi ritiene possa essere considerato suo erede?

Mi sento sempre un eterno studente, quindi mi farebbe piacere se potessi dare il buon esempio di come si deve affrontare con passione, tenacia e professionalità il nostro lavoro. Se qualcuno dicesse di apprezzarmi per questo, sarebbe già bellissimo. Nel nostro panorama ci sono tantissimi giovani bravi, ma li esorto a non accontentarsi mai dei risultati: come mi dicevano Cecchele, Corelli e Martinucci, non ci si stanca mai di studiare né di mettersi in discussine. Fare il nome di qualcuno sarebbe sbagliato, perché penso questo sia un lavoro bellissimo nella sua specificità e che siamo tutti diversi: in questo risiede la bellezza di ascoltare anche due recite fatte da due interpreti  nella stessa stagione, come succede anche in questo caso con Adriana Lecouvreur: si ha la possibilità di confrontarsi con grande rispetto (anche Gianluca Terranova sarà Maurizio n.d.r.).

 

Lei è anche Ambasciatore di Genova: che cosa significa?

È un ruolo onorifico che mi inorgoglisce molto, che si assume senza retribuzione, solo per il piacere di diffondere l’immagine di Genova nel mondo per farne capire e apprezzare le bellezze e perché è il modo migliore per sdebitarsi con la città, che dobbiamo fare crescere per le generazioni future. Si tratta di un bellissimo compito, per cui ringrazio Bucci, che portiamo avanti con diversi progetti, tra cui uno in particolare che spero di poter attuare presto: è l’inno a Genova, GenoVa Vita, composto dal Maestro Maurizio Martellini, e che aspettiamo di fare ascoltare alla cittadinanza.

Quando potremo ascoltare l’Inno per Genova?

L’occasione potrebbe essere l’inaugurazione del nuovo ponte o la festa della bandiera della città. Questo progetto è nato anche dal fatto che una delle esperienze più emozionanti che ho vissuto è stata quella di cantare Ma se ghe pensu in piazza De Ferrari a un mese dal crollo del Morandi: mi ha fatto capire come la musica serva a unirci in momenti particolari, suscitando il senso d’appartenenza alla nostra bellissima città.

Medea Garrone

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