Cultura - 26 dicembre 2018, 10:10

Zavatteri:"Sono direttore d'attori". Ma il suo sogno è la serie "Sons of Anarchy"

Dirige "Poker" al teatro Duse dal 28 Dicembre al 5 Gennaio, dopo aver recitato in serie come Gomorra e The Miracle, e in film di Nanni Moretti e Ben Stiller. Intervista al poliedrico attore e regista Antonio Zavatteri

Nella serie "Gomorra" interpretava un personaggio che si potrebbe definire "titanico": il commercialista suicida per salvare la famiglia dai Savastano. Ma era anche ispettore in "The Miracle", oltre a essere stato diretto da registi come Ben Stiller e Carlo Verdone, e aver recitato con Moretti. E' un attore impegnato, che si è formato al Teatro Stabile di Genova, è regista di pièce molto celebri, ma si definisce "direttore d'attori". E intanto sogna la serie tv "Sons of Anarchy": perché ci sono le Harley, ma soprattutto intrecci shackesperiani. Si tratta di Antonio Zavatteri, che ancora una volta porta in scena dal 28 Dicembre al 5 Gennaio al Teatro Duse la commedia "Poker".

“Poker” è uno spettacolo molto fortunato, giunto alla nona stagione. Nel 2009 ne era interprete, diretto da Marco Ghelardi, e ora regista: come mai e cosa significa per lei dirigerlo?

Si tratta di un spettacolo con una storia variegata: la prima messa in scena è stata quella con Ghelardi e successivamente l’ho ripreso con la nostra compagnia, la Gank. In quel caso recitavo sempre nello stesso ruolo, mentre l’anno scorso, per miei impegni, è stato Francesco Montanari a interpretarlo. Quest’anno, invece, la parte è di Enzo Paci. Mi sono defilato volentieri dal ruolo di attore, perché le due cose insieme non mi divertono molto: quando sono interprete non riesco a concentrarmi completamente, se faccio anche altro, perché sono sempre distratto da quello che accade, quindi preferisco fare una cosa sola. Per questo ho deciso di non recitare nello spettacolo, ma di dirigerlo. La qualità umana e attoriale della compagnia è molto alta, si tratta di persone con cui mi trovo veramente bene e non lo dico retoricamente, sono molto brave e anche la drammaturgia di “Poker” è ottima.

Di nuovo alla regia di uno spettacolo pieno di ironia come è stato anche “Le Prenome” l’anno scorso: quello comico è il genere che preferisce dirigere?

Non ho preso coscienza in modo lucido del fatto che preferissi la commedia rispetto ad altri generi, ma mi ci sono un po’ trovato, e devo dire che probabilmente è quello per il quale sono più portato, anche perché il mio teatro non si può definire ‘di regia’, inteso alla vecchia maniera del teatro d’interpretazione, con un forte ‘carattere’ da dare al testo scelto per la messa in scena; sono più un ‘direttore d’attori’, e in questo la commedia offre un ampio spazio di manovra.

A proposito di “Poker” e “Le Prenome”: essendo opere tradotte in italiano non è sempre facile rendere la comicità da una lingua all’altra.

Questo è un aspetto molto importante e infatti abbiamo sempre deciso di far traduzioni apposite senza usare quelle già pronte, perché non tutte rispecchiano il mio gusto, anche se io non sono un traduttore. Per esempio per quanto riguarda “Le Prenome”, ho chiesto a Fausto Paravidino di fare la traduzione e per “Poker” a Carlo Sciaccaluga, che con me ha cercato di sistemare un testo che comportava grandi difficoltà, per vari motivi, tra cui l’aspetto tecnico delle partite, da tradurre in modo plausibile, e il tipo di ironia e di collocazione geografica dell’opera, visto che abbiamo deciso di lasciarla a Londra e non ambientarla in Italia, anche se una prima tentazione c’era stata. Quindi il linguaggio è un aspetto fondamentale, perché il linguaggio dei personaggi determina i personaggi stessi e quindi la commedia.

“Poker” è una riflessione sulla nostra vita tragicomica di vincitori e vinti, e a proposito di vincitori e vinti è indimenticabile il ruolo che ha avuto in “Gomorra”: che cos’ha significato per lei quella parte e quella partecipazione a un serie di fama mondiale?


Per me è stata una parte molto importante, che ha determinato anche le mie scelte successive, perché da lì ho capito che quello che in questo momento della mia vita personale e professionale mi interessa, è la recitazione cinematografica o televisiva di qualità. Mi ha fatto scoprire una passione e ho preso coscienza di avere la necessità di crescita in quel tipo di attività, che tra l’altro è chiaramente molto collegata alla tipologia di recitazione che si fa a teatro, soprattutto per come la intendo io, anche se comporta grosse differenze, dalla concentrazione, alla messa in campo di sé, al coinvolgimento. Il cinema ha tanti aspetti che mi entusiasmano e che ho capito di voler imparare, anche perché, con “Gomorra”, ho avuto la fortuna di fare un personaggio di grosso spessore in un prodotto particolarmente di qualità, cosa che non è facile trovare in tv e nel cinema.

E infatti ha continuato in altre serie, come The Miracle di Ammaniti e “Trust”: c’è differenza tra le produzioni italiane e quelle straniere?

Devo dire che anche nelle serie italiane ho avuto sempre la fortuna di lavorare in produzioni di grande qualità: “The Miracle” di Ammaniti, anche se non ha avuto la fortuna di “Gomorra”, perché sono prodotti diversi, sia scrittura che regia sono di buona qualità. Nelle due esperienze che ho avuto con le sorelle Wachowski e con Danny Boyle ho riconosciuto un’alta professionalità, rara, in tutti i campi. Non che in Italia non ci sia, ma ce n’è un po’ meno. Questo non è garanzia di successo o di valore artistico particolare, ma lo è di grossa professionalità.

E’ stato diretto anche da Ben Stiller e da grandi registi italiani, da Moretti a Verdone.

Sono stato fortunato, perché le mie esperienze sono state sempre con persone, anche in Italia, grande spessore, sia artistico che professionale. Quando dico, quindi, che in Italia c’è meno professionalità, lo dico da spettatore, perché riconosco una certa improvvisazione, nel senso di pressapochismo. Nelle serie italiane nuove c’è qualche tentativo, ma non si raggiunge mai un livello pari ad altre straniere.

In quale serie straniera avrebbe sognato una parte?

Nonostante non sarebbe stato facile trovare una parte per me, forse “Sense of Anarchy”, una serie che parla di una banda di motociclisti; è molto bella perché sono riusciti a intrecciare agli harleisti argomenti di Shackespeare, da plot, di Amleto, con faide politiche e famigliari interne alle bande. Sicuramente è una cosa studiata: sono riusciti a usare il meccanismo shakespeariano che nella serie funziona molto bene.

Lei nasce come attore alla Scuola del Teatro Stabile: preferisce fare l’attore o il regista adesso?

Mi piace Alternare perché mi piace molto cambiare.

Lei non è di Genova, ma si è formato alla Scuola del Teatro Stabile e ha lavorato qui: che cosa sente per questa città?

Ho un figlio che vive qua e ci vengo ogni week-end. Anche se a Genova non ho più da fare dal punto di vista professionale, si tratta di una città che amo e se dovessi decidere di vivere idealmente in un posto, sarebbe quello in cui vorrei stare, anche se ne riconosco i limiti, perché è una città un po’ depressa, e credo sia un fatto oggettivo, non un’impressione, anche se ci sono dei tentativi di slanci.