- 22 dicembre 2019, 14:00

Cucina e nostalgia: la geografia 'errante' della 'fame'

“E commoveva il sentire di che povere cose si trattasse, di regali, per lo più, che portavano a parenti o amici d’America: chi una bottiglia di vino particolare, chi un caciocavallo, chi un salame, o un chilogrammo di paste di Genova..."

Edmondo De Amicis, durante la traversata da Genova a Montevideo e Buenos Aires, nel 1884, sul piroscafo Nord America, osservò quella che possiamo definire una sorta di “geografia errante” della “fame”, delle diverse regioni d’Italia: 

“quei contadini del mantovano che, nei mesi freddi, passano sull’altra riva del Po a raccogliere tuberose nere (…), e di quei mondatori di riso della bassa Lombardia (…) per campare di polenta, di pan muffito e di lardo rancido (…), molti di quei calabresi che vivono d’un pane di lenticchie selvatiche (…), e di quei bifolchi della Basilicata (…), molti di quei poveri mangiatori di panrozzo e di acqua-sale delle Puglie (…)”.

Tutti verso quell’America, quel paese della Cuccagna, verso quel luogo favoloso e di eccezionale prosperità, terra dell’abbondanza, simbolo dell’opulenza, quel “lontano Eldorado”, attestato da tante lettere e documenti, come ricorda una vasta letteratura sul mito americano, dei ceti popolari nelle diverse regioni d’Italia.

Tempi di cambiamento, dunque.

È indubbio che l’emigrazione di fine Ottocento, rappresenti anche un elemento di trasformazione dei consumi e delle abitudini alimentari nei luoghi dell’esodo.

Perfino nel celebre ricettario Artusi, si trova il riflesso, pur con significative varianti nelle diverse aree della nostra penisola, di regimi alimentari prevalentemente vegetariani. La carne vaccina, ma anche uova, latte e formaggi, il pesce e il “pane bianco”, erano pressochè assenti o scarseggiavano sulle tavole dei ceti popolari.

Per i nostri antenati viaggiatori, i viaggi d’oltreoceano, aprivano le porte anche a nuovi regimi alimentari.

Le traversate, come ricorda De Amicis, ma anche le tante testimonianze raccolte dalla voce degli emigrati, avvenivano spesso in condizioni “bestiali”, e in pessime condizioni igieniche, sanitarie e alimentari.

Nonostante i disagi iniziali, i contadini, familiarizzarono lentamente, nelle Americhe, con la carne, le uova, il latte, i formaggi, i liquori e il caffè.

Furono definiti “mangiamaccheroni”

Per questi contadini “vegetariani” (non per scelta) si compie una rottura secolare sul piano dietetico, del gusto, della cultura e della mentalità.

Questo consumo a volte esagerato di carne, capovolge la gerarchia alimentare, come ad esempio per i piemontesi, dove la polenta, era spesso l’esclusivo piatto quotidiano.

Si parte per “fame”, ma già durante il viaggio comincia la nostalgia dei cibi perduti.

Racconta sempre De Amicis, il “terrore della dogana” che gli emigrati, soprattutto le donne, avevano durante la traversata. Speravano di scansare la visita per poter salvare le poche cose che si portavano dietro:

“E commoveva il sentire di che povere cose si trattasse, di regali, per lo più, che portavano a parenti o amici d’America: chi una bottiglia di vino particolare, chi un caciocavallo, chi un salame, o un chilogrammo di paste di Genova e di Napoli, un litro d’olio, una scatola di fichi secchi, perfino una grembialata di fagiuoli, ma di casa propria, di quel tal angolo dell’orto, di cui il parente o l’amico si doveva ricordare sicuramente (…)”.

 (fonte Storia dell’emigrazione italiana, pp. 575-576-580-587)

 

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Zenet / Paola Garetti