- 06 marzo 2020, 17:00

"A Map of the World": la globalizzazione ai tempi del Coronavirus

"A Map of the World" è la realtà della nostra civiltà: un mondo economicamente sempre più globalizzato e tecnologicamente all’avanguardia ma purtuttavia molto fragile e delicato

A due settimane circa dall’esplosione del “Coronavirus” in Italia, con i primi focolai nel Lodigiano e in una zona della provincia di Padova, la situazione risulta ancora decisamente critica. E ciò non tanto per la gravità dei casi in sé – certo, ci sono stati decessi e tutt’ora vi sono non poche persone ricoverate e/o in isolamento ed alcune anche in terapia intensiva, ma la virulenza di questo virus non è maggiore di quei virus influenzali che ogni inverno colpiscono migliaia di persone nel nostro Paese - quanto perché si è ingenerata una situazione, sia a livello nazionale che internazionale, a dir poco surreale.

Fino al weekend del 22 e del 23 febbraio la situazione era praticamente normale: erano sì comparsi i primi casi sul nostro territorio (appunto in Lombardia ed in Veneto) ma non si pensava, almeno da parte della gente comune (e probabilmente anche delle Istituzioni Pubbliche e delle Autorità), che tale fenomeno assumesse nel giro di poche ore dimensioni molto più rilevanti. Lo scenario in Italia è così rapidamente mutato che anche chi come me viaggia quotidianamente tra Genova e Milano per motivi di lavoro, è rimasto colpito dalla impressionante differenza tra la situazione in essere a bordo dei treni e sulla  metropolitana e sulle strade del capoluogo lombardo: venerdì 21 febbraio, sull’abituale treno di rientro a Genova della sera (IC 679), carrozze come sempre piene, sia di pendolari che di viaggiatori occasionali, la mattina di lunedì 24 una situazione a dir poco impressionante, con mezzi di trasporto semivuoti e strade con pochi passanti, il tutto come già ampiamente descritto nel post del 28 febbraio (Il Coronavirus… sta diventando “virale”?”). Nella settimana lavorativa appena trascorsa il quadro non è cambiato di molto: treni e metropolitane molto poco frequentati, un numero decisamente più basso di persone che circolano nelle strade del centro di Milano, solitamente molto affollate; nella mia azienda, fatta eccezione per i tre giorni da mercoledì 26 a venerdì 28 (nei quali ho fruito, come sta accadendo in molte aziende italiane, dello smartworking), non ho riscontrato grandi differenze in quanto praticamente tutti i colleghi erano presenti. Anche perché in effetti le possibilità di contagio e di trasmissione del virus erano più elevate nei giorni precedenti alla diffusione della notizia del focolaio nel Lodigiano e nel Veneto, quando il livello di attenzione e di sensibilizzazione delle strutture sanitarie non era molto elevato e c’erano molte più persone in giro: tant’è che alcuni tra i soggetti risultati positivi alle prove tampone nei giorni successivi effettuati molto diffusamente erano proprio degli operatori delle medesime (medici, infermieri). Il che non toglie ovviamente nulla al fatto che a tutt’oggi, 6 marzo, non uscire di casa e poter lavorare da casa è comunque un fattore di maggior tutela sia per sé stessi che per gli altri.

Quando mi viene chiesto che problematiche in particolare viviamo noi pendolari liguri che lavoriamo a Milano e in altre aree, per lo più della provincia pavese, mi viene quasi da sorridere; sottolineo il quasi perché questa vicenda sta assumendo connotazioni sempre più pesanti ed in alcuni casi addirittura drammatiche (vedi per esempio la situazione in Corea del Sud e in Iran). Ho detto che mi viene da sorridere perché in queste due settimane, da quando il “Coronavirus” ha fatto “irruzione” nel nostro Paese, viaggiare in treno (oltre che muoversi in metropolitana) è diventato quasi piacevole: treni quasi sempre puntuali, pochi passeggeri a bordo e quindi spazi per sedersi comodamente, nessuno che ti pressa in metropolitana e, soprattutto, un repentino abbandono da parte di molti miei connazionali (ma non solo loro) di certe cattive ed incivili abitudini ossia quelle di tossire e di espellere il muco branchiale (sì, insomma, scatarrare per intenderci) senza avere il buon gusto e la buona educazione di mettersi la mano o un fazzoletto davanti alla bocca. A costo di apparire masochista, auspico quanto prima di poter ritrovarmi nelle consuete situazioni quotidiane di pendolare e di lavoratore, con molta gente sui treni e sui metrò: ciò significherebbe che l’Italia è riuscita a superare il momento più critico del “Coronavirus”; naturalmente spero, invece, che perduri il trend positivo relativo alla puntualità dei treni che, a dire il vero – come riportato dal nostro Comitato pendolari “Genova-Milano Newsletter” nella analisi di febbraio 2020 inviata nel weekend scorso all’Assessorato ai Trasporti della Liguria e alle aziende ferroviarie – abbiamo avuto modo di riscontrare già dall’inizio di gennaio e quindi prima che esplodesse il fenomeno virale. Per non dire che un fatto del genere così impattante, pur nella sua indubbia negatività, può avere dei risvolti positivi come quello sopra citato ossia il mutamento di certe cattive abitudini (tossire a bocca spalancata davanti ad altre persone, etc).

 

Per quel che attiene, invece, al quadro politico-istituzionale, nazionale ed internazionale, mi trovo in sintonia con quanto espresso dal filosofo e politico Massimo Cacciari il quale, in una sua recente apparizione in un programma televisivo, ha tra l’altro affermato che è “…impossibile, al mondo d’oggi, essere impreparati a casi del genere: nell’era contemporanea qualsiasi cosa è pandemica e i governi devono essere in grado di gestire queste situazioni con ragionevolezza e con una rotta comune, anziché ritrovarsi a brancolare nel buio e a navigare a vista”. Considerazioni fatte a proposito della classe politica italiana e che  a mio avviso sono ancor più valide se facciamo riferimento al quadro europeo: l’Unione Europea – checché ne dicano politici e commentatori italiani che spesso, a vanvera, si riempiono la bocca di slogan del tipo “Più Europa!” – è stata completamente assente. Infatti quando a fine dicembre 2019 è stata diffusa dal governo cinese, con grave e colpevole ritardo, la notizia del fenomeno virale esploso a Whuam, le istituzioni europee, anziché intervenire unitariamente con misure e provvedimenti urgenti come avrebbero dovuto se solo avessero pensato al fatto che il pericolo di diffusione del virus nel nostro continente sarebbe stato molto elevato in conseguenza degli imponenti flussi di persone e di merci che ci sono quotidianamente tra gli Stati europei e la Cina, sono risultate latitanti.

Detto ciò, trovo comunque stucchevole il dibattito che si è aperto in Italia a partire da quella oramai fatidica data del 21 febbraio che ha determinato una situazione che definirei irritante poiché si tende (come accade spesso nel nostro Paese) a “buttarla in caciara”. A tale proposito ritengo che anche il mondo della comunicazione italiana (ma non solo) dovrebbe fare, a mio modesto avviso, una onesta analisi autocritica per come ha gestito la diffusione di certe notizie ed altresì anche noi utenti dei media (sia quelli tradizionali che quelli, sempre più numerosi, disponibili sulla Rete) dovremmo riflettere su come gestiamo e “rielaboriamo” la mole smisurata di notizie (o pseudo tali) reperibili: siamo, infatti, così ingabbiati (questo mi sembra il termine più adatto) in certi meccanismi della società contemporanea, fortemente connotata dal ricorso sempre più massiccio alla Rete, che spesso molte persone sono praticamente disconnesse dal mondo reale . E’ indubbio che la moderna tecnologia fornisca all’uomo strumenti molto utili sia per la sua vita quotidiana “ordinaria” sia per la gestione di situazioni molto critiche come quelle del ”Coronavirus” ma essa non può prescindere dalla capacità di saperla gestire ed utilizzare con una elevata dose di buon senso e di intelligenza, soprattutto non perdendo il senso della realtà del mondo in cui viviamo. Fenomeni naturali fortemente impattanti (es: terremoti, cicloni, incendi delle foreste, epidemie virali) di fronte ai quali siamo praticamente impotenti hanno a mio avviso  il “merito” di mettere in profonda discussione alcuni modi di vedere e di concepire la propria esistenza che si sono oramai ampiamente radicati nel comune sentire e che in un qualche modo deformano la nostra visione della realtà: emblematici in tal senso il pensare che la nostra vita possa funzionare sempre in modo impeccabile, o quasi, grazie all’utilizzo della tecnologia e che grazie ad essa tutto possa essere sotto il nostro controllo, oppure il ritenere che la crescita economica, costi quel che costi, debba essere un caposaldo della nostra società moderna. Credo che una vicenda del genere possa positivamente indurre noi tutti esseri umani a riflettere sul senso più profondo della nostra esistenza su questo pianeta e su come noi ci relazioniamo con la natura che ci circonda.

Ed ecco allora che il titolo del post odierno (che trae spunto da film A Map of the World, uscito nel 1999 e diretto da Scott Elliott, la cui colonna sonora fu realizzata da Pat Metheny) non vuole solo fare riferimento a quella che è la mappa in tempo reale sul contagio del coronavirus COVID-19 (pubblicata sul sito https://gisanddata.maps.arcgis.com/apps/opsdashboard/index.html) ma intende soprattutto rappresentare quella che è la realtà della nostra civiltà: un mondo economicamente sempre più globalizzato e tecnologicamente all’avanguardia ma purtuttavia molto fragile e delicato.

 

 

Egomet