- 12 giugno 2020, 17:00

“Nulla sarà più come prima”… Forse

Una delle frasi più ricorrenti - e più abusate – in questi mesi da quando è esploso il Covid19

 è quella che compare nel titolo del post di oggi, 12 giugno 2020.

Ebbene sì, ridendo e scherzando (ma non troppo, a dire il vero), sono passati quasi quattro mesi da quando si registrò il primo caso “ufficiale” in Italia ossia l’ormai noto “paziente 1” di Codogno; e non a caso ho messo l’aggettivo ufficiale tra virgolette perché risulta praticamente acclarato – a detta di virologi, epidemiologi e scienziati vari – che il virus avesse fatto già la sua comparsa sul pianeta Terra, ed in Cina in particolare, alcuni mesi prima. Tralascio le discussioni e le accese polemiche relative all’atteggiamento omertoso o comunque poco trasparente delle autorità cinesi tradottesi in una ritardata comunicazione all’OMS e agli altri Stati in generale: mi auguro solo che un domani, non troppo lontano, si appurino le cause della pandemia e le responsabilità degli Stati e delle Istituzioni che non hanno saputo intervenire tempestivamente.

Tornando alla frase in oggetto mi viene da dire che essa, così come altre espressioni che spesso assumono i connotati di slogan di notevole impatto mediatico, si addica più a spot pubblicitari che non ad analisi su vicende così importanti ed epocali come quella che stiamo vivendo. In sé la frase vuol dire tutto e vuol dire nulla. Se ci mettiamo nei panni di coloro che hanno visto morire i loro cari a causa del virus, quasi sempre in totale solitudine, o di coloro che hanno perso il lavoro o l’hanno fortemente a rischio, è fuori di dubbio che la frase si attagli perfettamente alla loro situazione. E in questo caso l’altro famoso slogan, sbandierato fin dai primissimi giorni del virus (“andrà tutto bene”), indubbiamente oggi più che mai suona come beffardo e fastidioso per questa ampia fetta della popolazione che ha subito o sta subendo conseguenze pesantissime dalla vicenda Covid19.

Se invece ci soffermiamo sulle considerazioni di natura sociologica e culturale, non poche persone (tra le quali anche autorevoli opinionisti e scrittori) hanno in questi mesi ripetuto spesso questa frase facendolo diventare una sorta di refrain nella misura in cui con essa venivano rappresentato possibili scenari futuri della società contemporanea caratterizzati da un nuovo modo di concepire la propria esistenza ed il rapporto con il prossimo. Non nascondo che tale prospettiva per così dire ottimistica si è venuta a delineare anche nel mio personale approccio, soprattutto mentale, al Coronavirus e alle sue ricadute. Proprio nel post del 6 marzo scorso (“A Map of the World”) scrivevo “Fenomeni naturali fortemente impattanti (es: terremoti, cicloni, incendi delle foreste, epidemie virali) di fronte ai quali siamo praticamente impotenti hanno a mio avviso il “merito” di mettere in profonda discussione alcuni modi di vedere e di concepire la propria esistenza che si sono oramai ampiamente radicati nel comune sentire e che in un qualche modo deformano la nostra visione della realtà: emblematici in tal senso il pensare che la nostra vita possa funzionare sempre in modo impeccabile, o quasi, grazie all’utilizzo della tecnologia e che grazie ad essa tutto possa essere sotto il nostro controllo, oppure il ritenere che la crescita economica, costi quel che costi, debba essere un caposaldo della nostra società moderna. Credo che una vicenda del genere possa positivamente indurre noi tutti esseri umani a riflettere sul senso più profondo della nostra esistenza su questo pianeta e su come noi ci relazioniamo con la natura che ci circonda.” Oggi non rinnego affatto quanto sopra, anzi, lo ribadisco nella perché sono convinto che alcune certezze divenute quasi monolitiche nella società contemporanea verranno indubbiamente rivedute e, auspicabilmente, corrette avendo dimostrato la loro scarsa solidità. Tuttavia, ponendomi con un atteggiamento più scettico, non credo neppure che tutte le persone siano in grado di trarre spunti positivi e costruttivi da vicende che oggettivamente hanno delle ricadute così rilevanti sia sulla propria vita individuale che su quella sociale: la superficialità, l’arroganza e la protervia nel modo di rappresentare le proprie idee e le proprie opinioni sono sintomatiche del fatto che in molti ambiti della nostra società molte cose, ahimè, saranno come prima (e forse anche peggio di prima). Penso, solo per citare un aspetto emblematico, a come la pandemia e le sue pesanti ricadute su vari piani abbiano dato lo spunto a tanti soggetti di salire alla ribalta rivendicando pseudo-violazioni dei diritti e della libertà personali, strumentalizzando in modo bieco e subdolo le incertezze e le comprensibili inquietudini delle persone comuni (ogni riferimento ai c.d. “gilet arancioni” e alle loro pseudo-manifestazioni è puramente voluto). E la pretestuosità di certe manifestazioni “di piazza” risulta ancora più urticante se le stesse le raffrontiamo con quelle, assolutamente legittime e meritevoli di sostegno, che si stanno svolgendo proprio in queste settimane e in questi giorni negli Stati Uniti, a seguito dell’assurdo e abominevole assassinio del povero George Floyd, o con quelle che stanno avendo luogo a Hong Kong o ancora con tante altre nelle quali si rivendicando, autenticamente e legittimamente, i diritti fondamentali degli esseri umani.

Se c’è qualcosa che sicuramente non sarà come prima – e qui veniamo all’Egomet lavoratore e pendolare – è ciò che ha sempre caratterizzato la mia quotidianità in questi anni. E’ infatti giunto praticamente alla fase conclusiva, nel gruppo bancario di cui faccio parte, il processo di ridefinizione delle modalità di lavoro: non più esclusivamente la presenza fisica in ufficio ma ampio spazio, laddove le mansioni e la tipologia di attività lo consentano, al remote-working o smart-working che dir si voglia. Al di là dei termini che si usano, resta il fatto certo che tali modalità “alternative” rispetto a quella standard/tradizionale saranno sempre più impiegate, anche una volta che la vicenda Covid19 sarà stata superata. E personalmente ciò significherà un importante e positivo cambiamento nelle mie abitudini quotidiane di vita. Sicuramente non si passerà ad un home-working integrale come sta accadendo necessariamente in questi mesi di emergenza determinata dalla pandemia, né, detto molto sinceramente, lo desidererei: sia per il mio ruolo aziendale sia per l’importanza che attribuisco al “contatto umano” nel mondo del lavoro, sarò fisicamente presente in ufficio per almeno 2/3 giorni alla settimana. E ciò permetterà a me, come ad altri miei colleghi nonché a tanti altri lavoratori, di rendere meno snervante e faticosa la propria quotidianità lavorativa. Se parliamo poi di chi, come me, si trova nella necessità di dover impiegare non meno di tre ore giornaliere per raggiungere il proprio posto di lavoro la mattina e per rientrare a casa la sera, si può comprendere facilmente come questa nuovo trend sarà decisamente migliorativo per la nostra qualità della vita. Ovviamente ciò mi consentirà di incontrarmi e di viaggiare insieme in treno ai miei Compari in quelle giornate nelle quali ci recheremo a Milano e, conseguentemente, di poter un domani, a rischio pandemico estinto o comunque fortemente ridimensionato, di intrattenerci piacevolmente con i nostri aperi-treno e di poter trascorrere qualche ora in allegria nelle nostre rituali cene del venerdì sera.

Volendo, infine, individuare qualcosa che fortunatamente sarà come prima, allora – rimanendo sempre nella mia sfera personale – non posso che fare riferimento a quelle piccole ma assai gratificanti situazioni di vita ordinaria che sanno darmi sempre spunti di positività e di benessere interiore. Penso in particolare a quelle brevi escursioni estemporanee sulle alture della mia Genova o lungo la costa che mi permettono di ammirare quei panorami e quei paesaggi che, pur nella loro essenzialità, mi riempiono il cuore e la mente.



Egomet