Quando pensiamo alla plastica, all’inquinamento che comporta e alla sempre più stringente necessità di un suo riciclo, pensiamo principalmente alle bottiglie delle bevande o ai flaconi dei detersivi.
Sono le prime immagini che ci vengono in mente. Le prime che solitamente sono rappresentate. Poi, ci sono le ‘grandi plastiche’, come quelle dei giocattoli, come i plexiglass. Poi, tutta quella plastica contenuta nella miriade di oggetti prodotti a causa dell’emergenza sanitaria, tra mascherine, guanti, visiere, contenitori per porzioni monouso e tanto altro ancora.
C’è però una plastica ‘invisibile’, capace di passare anche attraverso i filtri dei depuratori, difficilmente riciclabile eppure altrettanto pericolosa. Ovvero quella costituita dalle microplastiche, quelle porzioni piccolissime di plastica che, finendo in mare, oltre a inquinarlo possono terminare nella pancia dei pesci e, di conseguenza, ritornare sulla nostra tavola e sui nostri piatti, seguendo un circolo molto ma molto rischioso, legato alla catena alimentare.
Di microplastiche se ne conoscono molti tipi, di qualcuno si parla di più (come quelle derivanti dai Raee, ovvero gli apparecchi tecnologici ed elettronici), di qualche altro di meno. Certamente è tutto un mondo da scoprire, ma è necessario farlo, quello delle microplastiche legate al mondo dei tessuti, della produzione di vestiti e della moda in generale.
Marco Castagna, presidente e amministratore delegato di Duferco Energia, e da sempre impegnato sulle tematiche green, ha avuto modo di approfondire questo filone con il suo lavoro e si prodiga con impegno affinché venga fatto arrivare alla popolazione.
“È esattamente così - afferma - Quando parliamo di microplastiche, dobbiamo parlare anche di moda. E questo perché per produrre capi di abbigliamento sintetici o misti, ovvero con fibre naturali e fibre sintetiche, ogni anno l’industria mondiale della moda utilizza l’equivalente di tre trilioni di bottiglie di plastica. La stessa industria del ‘fashion’ nella fase di produzione dei capi è responsabile del 20% dell’inquinamento delle acque superficiali, utilizza il 4% dell’acqua dolce del pianeta e ha causato emissioni di CO2, nel 2015, per oltre 1,2 miliardi di tonnellate: stiamo quindi parlando di un’industria più ‘pesante’ di quanto non si creda”.
Nell’immaginario popolare, quando si pensa all’industria pesante, si pensa alle acciaierie, “ma qui i controlli sono rigorosissimi e il principio di circolarità è applicato ai massimi livelli. Nel campo ad esempio della moda c’è grande attenzione, ma non è applicabile la stessa circolarità”.
Produzione in elevate quantità, significa immissione di plastica in altrettanto elevate quantità. E la cosa non finisce qui, perché i tessuti, come tutti gli oggetti, tendono a degradarsi. Il problema si presenta quando si degradano durante i lavaggi, perdendo appunto le parti in plastica che vanno a terminare negli scarichi delle lavatrici. Ed eccolo qui, quell’inquinamento ‘invisibile’ e difficile da fermare e da gestire. Ma che c’è. Eccome se c’è.
Secondo Marco Castagna, “il solo lavaggio dei capi prodotti in un anno a livello mondiale produce, ogni anno, mezzo milione di tonnellate di microplastiche, che finiscono nei nostri mari senza che noi ce ne accorgiamo. Il trend è in crescita, in quanto a livello globale la produzione di capi di abbigliamento è a sua volta costantemente in crescita: negli ultimi quindici anni, tale produzione è raddoppiata, principalmente per effetto della cosiddetta fast fashion, mentre l’utilizzo dei capi che acquistiamo è diminuito del 36%. In sostanza, compriamo più vestiti indotti dalla moda e li indossiamo per un numero minore di volte rispetto al passato. Peraltro, solo l’1% delle fibre contenute nei vestiti prodotti viene successivamente riutilizzata per produrre nuovi capi di abbigliamento”.
Secondo uno studio redatto dalla Ellen MacArthur Foundation, si stima che nel 2050 la quantità di microplastiche presenti nel mare per il solo effetto del lavaggio degli indumenti sarà di circa ventidue milioni di tonnellate. Sempre al 2050, se il trend di produzione dei tessuti continuerà ai ritmi attuali, il settore tessile sarà responsabile di circa il 26% delle emissioni di CO2 ipotizzate alla data.
Cosa possiamo fare quindi per dare il nostro contributo alla soluzione del problema della riduzione della quantità di microplastiche rilasciate in mare posto che, ovviamente, non possiamo smettere di lavare i nostri vestiti?
“Alcune scelte di ordine strategico sono chiaramente responsabilità dell’industria tessile - precisa Castagna - Mi riferisco a ecodesign dei capi di abbigliamento privilegiando quelli in tessuti naturali, possibilmente riciclati, e rendere la durabilità dei capi più attrattiva per il consumatore. Oppure sono responsabilità dell’industria del riciclo: rendere efficiente e trasparente la raccolta dei vestiti non più utilizzati, realizzare impianti di trattamento dei vestiti usati che consentano di separare i vari materiali che li compongono o riciclare tali scarti realizzando con gli stessi nuovi prodotti”.
È un tema molto attuale. Al momento, i vestiti non più utilizzati vengono gettati nella raccolta indifferenziata, ma entro il 2025 sarà necessario effettuare la raccolta separata anche dei capi di abbigliamento, proprio perché il problema inizia a essere sempre più sentito e anche sempre più grave. La grande sfida della tecnologia, e delle stesse industrie tessili, è trovare al più presto dei sistemi che consentano di differenziare il più possibile, e di conseguenza di riciclare il più possibile.
“Ma noi consumatori - avverte Castagna - giochiamo però un ruolo importante, come sempre, perché i nostri comportamenti possono influenzare questo mercato. In particolare, possiamo aumentare l’utilizzo dei nostri capi di abbigliamento; possiamo acquistare una quantità maggiore di vestiti in fibre naturali, come lana e cotone; possiamo contribuire a un riciclo ottimale attraverso il conferimento dei vestiti usati nel circuito di recupero dedicato. La guerra alla plastica, quindi, si combatte anche sul ‘fronte’ della moda”.
Uno studio italiano, condotto dall’Istituto per i polimeri, compositi e biomateriali (Ipcb) del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), ha analizzato il passaggio di microplastiche nelle acque di scarico utilizzando una lavatrice commerciale e capi di uso comune.
Una buona fetta (dal 15 al 30%) delle microplastiche negli oceani sono quelle cosiddette primarie, cioè quelle che arrivano già frammentate in strutture di dimensioni microscopiche. La fonte principale delle microplastiche primarie è proprio il lavaggio di capi sintetici, un dato riconosciuto da vari studi. Il processo di lavaggio con lavatrici di uso domestico, infatti, contribuisce per il 35% del rilascio di queste sostanze. I ricercatori hanno voluto approfondire la questione, per capire quanto e come le microplastiche si staccano dagli abiti e possono contribuire all’inquinamento.
Gli scienziati hanno misurato la concentrazione di microplastiche rilasciate da ciascun capo alla fine del lavaggio: si parla di quantità che vanno dai 120 ai 300 milligrammi per chilogrammo. In particolare, ciò che emerge dallo studio è che alcuni capi perdono più microfibre rispetto ad altri. “Tessuti più compatti - sottolinea la ricercatrice Francesca De Falco - come capi sportivi in 100% poliestere, con fibre lunghe e attorcigliate, hanno rilasciato una quantità di microplastiche minore rispetto a quella generata dal lavaggio di maglie con tessuti meno uniformi e fibre meno aggrovigliate”. In assoluto, il capo che ha perso la maggiore concentrazione di queste microfibre, pari a circa 300 milligrammi per chilo, è la maglia in 100% poliestere da un lato e cotone e modal dall’altro.
Questo studio, spiegano gli autori, mostra che i tessuti compatti, con filamenti lunghi, continui e attorcigliati, rilasciano meno microplastiche, che se non vengono successivamente bloccate dagli impianti di depurazione possono anche entrare nell’ambiente e raggiungere i mari. “Questi risultati sembrano suggerire l’opportunità di un cambiamento nel design dei tessuti prodotti dall’industria dell’abbigliamento”, scrivono gli autori, “che potrebbe contribuire alla riduzione del rilascio di microplastiche”.
È questa la grande sfida del futuro, ancor più grande che centrare la collezione giusta e più gettonata.