Innovazione - 29 gennaio 2020, 14:00

Ivan Martin, da Santa Margherita a Basilea per rigenerare i tessuti umani

Laureato a Genova in ingegneria elettronica, il professor Martin è uno dei maggiori esperti nelle terapie cellulari per la rigenerazione dei tessuti umani. Lo abbiamo intervistato

Ivan Martin, da Santa Margherita a Basilea per rigenerare i tessuti umani

Se in un futuro neanche tanto lontano ricostruire la cartilagine del ginocchio con le nostre stesse cellule (tra l’altro del naso) potrebbe diventare una routine, così come rigenerare ossa e riprodurre midollo osseo, dando nuove e maggiori possibilità di guarigione ai malati di leucemia, lo dovremo anche a un genovese (nato a Santa Margherita Ligure) e alla sua equipe. Si tratta, infatti, del professor Ivan Martin, ingegnere elettronico, con specializzazione in bioingegneria, che ha lavorato in uno dei centri di ricerca più prestigiosi al mondo, il MIT di Boston, e che oggi dirige il gruppo di ricerca in Ingegneria dei tessuti dell’Università di Basilea, vantando premi internazionali e pubblicazioni sulle principali riviste del settore. Purtroppo non tornerà a Genova, ma ci ha garantito che il suo sostegno ai giovani ricercatori italiani continuerà a non mancare.

Perché ha scelto ingegneria dei tessuti? Sembra molto vicina alla medicina.

Dopo aver studiato ingegneria elettronica a Genova con una tesi sulla robotica e l’uso di reti neurali per la coordinazione visuo-motoria, mi sono reso conto di essere intrigato da quegli aspetti della biologia che si studiano in ingegneria per replicare le funzioni delle cellule neurali e applicarle all’intelligenza artificiale. In particolare mi è sembrato affascinante studiare i meccanismi delle nostre cellule nella costruzione di un tessuto, nella prospettiva di implementarli in ambito clinico.

Lei è il massimo esperto europeo nella progettazione e realizzazione dei bioreattori per la crescita e la rigenerazione dei tessuti umani: si può rigenerare ogni tipo di tessuto?

Quando si parla di ingegneria dei tessuti c’è il rischio che si pensi a un concetto molto semplice e che quindi si possano usare facilmente le cellule per ricostruire un tessuto lesionato o che abbia perso la propria funzione. Il timore, quindi, è che si generino aspettative eccessive, ritenendo che tutto questo sia alla portata immediata della medicina moderna, ma in realtà non è ancora così: siamo solo all’inizio della comprensione su come indurre le cellule a generare un tessuto che acquisti funzionalità, e di conseguenza quali cellule usare e quali protocolli seguire per controllarle.

Quali sono, allora, gli studi verificati?

Attualmente sono pochissime le terapie verificate scientificamente e clinicamente: principalmente per la ricostruzione della pelle, nel caso degli ustionati, e per la ricostruzione della cornea lesionata, mentre gli altri studi sono ancora a livello sperimentale. Anche le tecniche a base di cellule ‘staminali’ di cui sono popolati i media sono per lo  in fase di sviluppo e sperimentazione, per cui non e’ legittimo offrirle come strategia terapeutica di routine, al di fuori di studi clinici definiti. Lo stesso vale ovviamente per i programmi di rigenerazione di cartilagine e osso che stiamo coordinando a Basilea. Quando però si dimostreranno effetti terapeutici consolidati, sarà importante generare i tessuti in modo standardizzato ed economicamente sostenibile. Ecco perché la produzione in bioreattori giocherà un ruolo importante per l’adozione su larga scala dei tessuti bioingegnerizzati. Questo pensiero è stato centrale nella decisione di fondare una start-up, nel 2011.

E infatti grazie alla sua ricerca è stato possibile, per la prima volta a dicembre 2018, riparare la cartilagine del ginocchio con le cellule della cartilagine del naso del paziente: a che punto è questo studio?

Si tratta di studi clinici molto promettenti, che potranno offrire soluzioni per pazienti che non hanno valide alternative terapeutiche. Abbiamo iniziato a trattare a Basilea pazienti che presentano lesioni nel ginocchio con membrane di cartilagine costruite in laboratorio e che hanno la caratteristica, unica al mondo, di essere state generate con cellule della cartilagine del naso. Dopo i primi 15 pazienti, che ne hanno tratto beneficio, abbiamo ricevuto il finanziamento dalla Comunità Europea per coordinare uno studio clinico su 108 pazienti, in 5 centri clinici in Europa, di cui uno a Milano. Finora ne abbiamo trattati 90, ma solo alla fine potremo analizzare retrospettivamente com’è andata. In ogni caso abbiamo fatto passi da gigante, per portare un’idea concepita al banco del laboratorio fino alla sperimentazione clinica.

Come siete arrivati a scegliere le cellule della cartilagine del naso?

Abbiamo verificato che la qualità delle cellule della cartilagine del ginocchio varia moltissimo da paziente a paziente, il che impedisce di standardizzare la funzionalità dei tessuti che ne vengono generati. E così abbiamo testato le cellule della cartilagine del naso, dimostrando che la capacità rigenerativa è più efficiente e riproducibile, anche da pazienti di più di 70 anni.

Lei coordina moltissimi progetti: attualmente qual è il più importante?

Forse non il più importante, ma il più prestigioso è il finanziamento ERC, European Research Council, ricevuto nel 2019. In questo progetto studiamo che cosa rende le cellule della cartilagine nasale così superiori nella capacità rigenerativa: se ne capiremo a livello genetico ed epigenetico i meccanismi, probabilmente riusciremo anche a usarli in modo più efficace ed eventualmente a estenderli ad altri tipi cellulari per generare altri tessuti, come l’osso. Uno degli altri progetti del laboratorio, infatti, è sviluppare nuove strategie per rigenerare osso non solo come tessuto, ma come organo, ovvero con l’importante componente del midollo osseo, in cui si trovano le cellule del sangue: sono due sistemi che si interfacciano, e studiandoli in modo combinato possiamo fare progressi sia in ortopedia che in ematologia.

Infatti nel 2018 è riuscito anche a riprodurre del tessuto di midollo osseo: questo ha aperto la via a nuove speranze per i malati di leucemia?

Questo studio può essere utile per i pazienti perché se costruiamo un midollo osseo 'ingegnerizzato' con le cellule del paziente specifico affetto da una particolare leucemia, possiamo riprodurre in vitro la patologia stessa, e quindi, in futuro, trovare preventivamente il farmaco che funzionerà meglio sul paziente. Si va nella direzione della cosiddetta medicina personalizzata, ma per farlo ci vorrà una decina d’anni.

Attualmente collabora anche con l’Italia? E con l’Università di Genova?

Sì, collaboro soprattutto col Politecnico di Milano e l’Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, mentre con Genova ci sono interazioni e contatti continui, anche per lo scambio di studenti. Si tratta dei laboratori in cui sono cresciuto e i rapporti sono ottimi.

A proposito di questo, in un’intervista ha affermato che in Italia esiste un “potenziale creativo” da valorizzare: pensa di tornare in Italia, magari anche a questo scopo?

Per me è un po’ tardi, sono qui da oltre vent’anni e la mia famiglia si è integrata bene: i tre figli sono nati qui e mia moglie Gabriella ha aperto una gelateria artigianale che riscuote molto successo. Ma sono convinto del potenziale che c’è nei giovani formati dal sistema accademico italiano, che è ancora di ottimo livello, quindi mi impegno ad accoglierli qui in laboratorio: sono in molti a venire dall’Italia e poi a rientrare proseguendo nella ricerca in modo eccellente. Questo è il mio contributo, anche se mi piacerebbe collaborare con il sistema italiano anche in modo diverso: ad esempio, nel caso in cui si volessero progettare nuove strutture o programmi per la ricerca, sarei lieto di essere consultato, per contribuire alla formazione dei giovani ricercatori.

Consiglia la strada dell’ingegneria biomedica e della ricerca all’estero?

Credo che nel futuro verranno sempre più valorizzati i settori interdisciplinari, in grado di generare sinergie importanti, e penso che l’ingegneria biomedica  combini due aspetti positivi: il profilo d’alta specializzazione con un’apertura verso altre discipline dell’area medico-biologica. Consiglio anche le esperienze all’estero – come hanno fatto con me i miei professori –, con la speranza di tornare in Italia e portare quello che si è imparato, ma aperti a restare cittadini del mondo.

Medea Garrone

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