Attualità - 03 dicembre 2022, 09:30

Spesso vogliamo tutto e subito, ma l'immediatezza è la chiave?

Cosa ci aspettiamo da noi stessi, dagli altri? E quanto tempo ci diamo?

Spesso vogliamo tutto e subito, ma l'immediatezza è la chiave?

Molte persone che vengono nel mio studio e si rivolgono a me come ad altri colleghi, lo fanno perché stanno male. Già questa condizione mette una strana sensazione addosso, di emergenza, di urgenza. Dopotutto, nessuno vuole stare male. 

Arrivano così molto convinti di iniziare "un percorso di terapia" (la maggior parte delle volte lo chiamano correttamente) e iniziano a venire con la cadenza concordata. Negli ultimi anni mi è capitato spesso, e forse ancora di più nel post covid, che ad un certo punto qualcosa si rompesse. Gli incontri e le sedute diventavano più difficili con alcuni, la cornice e il setting sempre più complessi da mantenere. Bisognava riportarli spesso all'accordo.

Ho capito che si fa fatica a tollerare lo sforzo di un lavoro terapeutico. Non è necessario entrare in uno studio di professionisti del mio settore, basta in realtà anche solo buttarsi in strada con un'auto o una moto per capire questa fatica di tollerare il tempo, gli sforzi, le interruzioni, i passaggi compelssi. 

Come si sta nella confusione e quindi nella fatica in essa percepita? Oggi cercando di togliersene il più veloce possibile, secondo me. Intendo dire che ad esempio le moto sorpassano e vanno "il più veloce possibile", non tollerando le pause dei semafori ad esempio, gli inceppi, i pedoni, le macchine che rallentano per parcheggiare sulla destra. 

Non tolleriamo più eventuali ostacoli o fatiche, non solo per strada, ma dentro di noi, nel nostro essere. Nello studio di psicoterapia, così come fuori da esso, non ci diamo tempo. O almeno, così ci pare che sia giusto fare. E quindi, soluzioni rapide, sorpassi rapidi. D'altra parte siamo abituati così. Con il telefono e internet facciamo effettivamente tutto molto veloce, arriviamo ovunque in un secondo. Questo ci aiuta? Se lo si parzializza sì, perché altrimenti ci scompensa. La nostra mente si chiede, "come mai posso arrivare ovunque in modo rapidissimo, posso tenere aperte più finestre del mio smartphone contemporaneamente, e poi devo tollerare la fatica e lo sforzo di anni per riuscire a stare meglio emotivamente?"

Perché ad arrivare se si hanno macchine potenti si fa presto, ma per capire, comprendere, cioè tenere dentro di noi e digerire per davvero delle cose nuove, ci vuole del tempo.

Dobbiamo accettare (e rallegrarci), di non essere dei telefoni cellulari o dei computer, di avere bisogno di tempo. Di avere bisogno di decantare, non solo per pensare alle cose, ma proprio per attendere. Attendere noi stessi e la nostra mente. Attendere di fare spazio, attendere di essere pronti. E osservare. Credo che il vero lavoro sia osservare, che la vita abbia lo scopo di osservare, che la psicoterapia abbia lo scopo di osservare per rendere consapevoli.

E di questo ho un esempio pratico. Mio padre mi aveva coinvolta da ragazzina a dipingere una cornice di legno lunga tre metri che sarebbe stata poi da tagliare per fare qualche lavoretto dei suoi: lui, con molta calma, lavorava alle volte a piccole cose che poi gli servivano per abbellire la casa. Io impaziente gli avevo chiesto cosa avremmo fatto, mentre la cornice si sarebbe asciugata. "Niente, aspettiamo."

"Come aspettiamo? E cosa facciamo?"

"Aspettiamo ti ho detto, se vuoi parliamo. Il legno ha il suo tempo per assorbire il colore".

Questa frase la uso spesso, dentro di me e con le persone che vedo nel mio lavoro. Abbiamo bisogno del nostro tempo per assorbire i colori.

Cristina Fregara

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