Siamo ancora capaci di distinguere ciò che è naturale da ciò che ne rappresenta solo una copia? È da questa domanda che nasce “W.E.I.R.D.”, la mostra di Nicolò Rinaldi, fotografo documentarista e visual researcher genovese, che attraverso immagini, installazioni e video riflette sul rapporto ambiguo e sempre più distorto tra l’essere umano e la natura.
L’esposizione, allestita presso la Sala Ducale Spazio Aperto, è sostenuta da Strategia Fotografia 2024, progetto promosso dalla Direzione Generale Creatività Contemporanea del Ministero della Cultura.
In un percorso immersivo che unisce fotografie, sculture e schermi digitali, Rinaldi mette in scena un mondo dove la natura non è più quella autentica, ma la sua replica artificiale: parchi a tema, musei, laboratori tecnologici, spazi che riproducono il “selvaggio” per renderlo comprensibile, addomesticato, controllabile.
Il titolo stesso del progetto, W.E.I.R.D., è un acronimo che racchiude la chiave di lettura dell’opera: “Wilderness Emulation Implicates Rapid Destruction” - l’emulazione della natura implica una rapida distruzione.
“Due anni fa mi sono domandato quale fosse il sentimento che porta l’uomo a replicare la natura. Da lì ho cominciato a esplorare tutti i modi in cui l’uomo cerca di riprodurla. Ci sono repliche a scopo ludico o didattico, come i parchi a tema, gli zoo o gli acquari. Ma ci sono anche ricostruzioni più scientifiche o tecnologiche: ad esempio, all’Istituto Italiano di Tecnologia ho fotografato robot ispirati ai meccanismi naturali”.
Nelle sue fotografie convivono così l’ironia e la riflessione. “Alcune immagini sono volutamente divertenti, perché uso spesso l’ironia come strumento visivo”, spiega. “Altre invece sono più concettuali, come quella realizzata all’Osservatorio Astronomico di Genova, dove ho fotografato un proiettore sferico che riproduce l’arcata celeste. Non si vede il cielo, ma solo la macchina che lo proietta: è comunque una replica della natura”.
Il progetto è nato proprio a Genova, ma ha presto assunto una dimensione internazionale. “L’ho iniziato qui due anni fa, poi l’ho portato avanti durante i miei viaggi, negli Stati Uniti e in Giappone, dove ad aprile ho fatto una residenza artistica grazie al sostegno del Ministero della Cultura, con il bando Strategia Fotografia”, racconta.

Tra le opere in mostra, alcune installazioni sono frutto della collaborazione con l’Università di Genova. "Abbiamo realizzato insieme delle fotogrammetrie digitali di reperti museali - un pinguino, un granchio - scegliendo come renderli più estetici possibile”, spiega Rinaldi. “Il dipartimento si occupa di digitalizzare gli archivi dei musei, e questo dialogo tra scienza e arte era perfetto per il concetto di W.E.I.R.D.”.
L’allestimento, infatti, è volutamente “strano”: accanto alle stampe fotografiche compaiono oggetti tecnologici ormai obsoleti - vecchi televisori a tubo catodico, iPhone e iPad di prima generazione - che amplificano la sensazione di smarrimento e nostalgia.
“Volevo uscire dalle cornici e non fare una mostra solo fotografica”, spiega l’autore. “Le installazioni dovevano essere strane, bizzarre, come il titolo stesso del progetto. Weird significa “strano”, ma è anche un acronimo: Wilderness Emulation Implicates Rapid Destruction. L’emulazione della natura ci porta a distruggerci”.
Nicolò Rinaldi non proviene da un percorso tradizionalmente artistico: “Ho lavorato per anni come disegnatore navale e poi in Fincantieri”, racconta. “Ma la passione per la fotografia ha avuto la meglio: da tre anni faccio il fotografo professionista. Lavoro anche nel campo pubblicitario, ma porto avanti in parallelo un percorso d’autore, più libero e di ricerca visiva, come questo”.
La mostra genovese è la sua seconda esposizione in Italia, dopo quella di marzo a Cesena con il progetto Tourist Tsunami, dedicato al turismo di massa. “Anche lì usavo l’ironia come chiave di lettura. A luglio ho presentato W.E.I.R.D.anche in una piccola mostra a Kyoto, e a fine mese sarà esposta a Castelfiorentino, dove il progetto è finalista a un concorso di fotografia contemporanea”.

Alla domanda su cosa speri di suscitare nel visitatore, Rinaldi sorride: “Mi aspetto che chi viene a vedere la mostra resti un po’ confuso, perché le immagini sono molto diverse tra loro. Finché non si leggono le didascalie, forse non si capisce subito il filo conduttore. Ma quella confusione è voluta”.
“Il mio intento non è giudicare o condannare le repliche della natura. Piuttosto, voglio spingere lo spettatore a riflettere. La mostra è un invito a interrogarsi: fino a che punto siamo ancora capaci di distinguere il vero dal costruito? E, soprattutto, perché sentiamo il bisogno di imitarlo?”.












