Ogni domenica 'La Voce di Genova', grazie alla rubrica ‘Gen Z - Il mondo dei giovani’, offre uno sguardo sul mondo dei ragazzi e delle ragazze di oggi. L'autrice è Martina Colladon, laureata in Scienze della Comunicazione, che cercherà, settimana dopo settimana, di raccontare le mode, le difficoltà, le speranze e i progetti di chi è nato a cavallo del nuovo millennio.
Scorrendo i social ogni giorno abbiamo la sensazione di essere costantemente informati, aggiornati su tutto ciò che accade nel mondo. In realtà, quello che vediamo è solo una piccola parte della realtà, modellata su misura per noi. Ogni like, commento, condivisione o semplice visualizzazione contribuisce a costruire un algoritmo personale che seleziona i contenuti in base a ciò che ci interessa, a ciò in cui crediamo e alle idee che già condividiamo. È così che nascono le cosiddette camere d’eco e le bolle epistemiche, due fenomeni diversi ma strettamente collegati, che influenzano profondamente il nostro modo di informarci e di formarci un’opinione.
La bolla epistemica è un ambiente informativo chiuso in cui alcune informazioni non riescono nemmeno a entrare. Non perché vengano attaccate o rifiutate, ma perché semplicemente non circolano. La nostra bacheca è caratterizzata da una predominanza di contenuti allineati alle nostre convinzioni, mentre quelli contrari vengono sistematicamente esclusi. Gli algoritmi giocano un ruolo centrale in questo processo: mostrano ciò che è coerente con i nostri interessi e bloccano all’ingresso informazioni che potrebbero metterci in discussione. In questo modo si crea una visione del mondo parziale, in cui non ci rendiamo conto di ciò che manca, perché non sappiamo nemmeno che esiste.
Le camere d’eco, invece, vanno oltre il semplice filtro informativo. Qui entra in gioco anche la dimensione sociale ed emotiva. All’interno di una camera d’eco le idee vengono continuamente ripetute, rafforzate e confermate dal gruppo, mentre le opinioni esterne vengono screditate, ridicolizzate o considerate automaticamente false. In questo contesto si crea una vera e propria comunità, fondata su valori condivisi, linguaggi comuni e una visione del mondo che diventa identitaria. Le persone non restano in una camera d’eco solo per ciò che pensano, ma per chi sentono di essere. Uscirne non significa soltanto cambiare idea, ma rischiare di perdere legami, amicizie, senso di appartenenza e supporto. È anche per questo che queste dinamiche sono così difficili da spezzare.
Questi meccanismi favoriscono la diffusione delle fake news. Nelle bolle epistemiche le notizie false trovano terreno fertile perché non vengono mai confrontate con informazioni alternative. Nelle camere d’eco, invece, vengono difese e rilanciate perché rafforzano ciò in cui il gruppo crede e contribuiscono a tenere unita la comunità stessa. Ed è interessante notare che i consumatori di disinformazione non sono necessariamente persone disinteressate o superficiali. Al contrario, spesso si tratta di individui genuinamente motivati a comprendere la realtà, desiderosi di sapere cosa accade intorno a loro.
Esistono almeno due spiegazioni principali per cui queste persone faticano a riconoscere le fake news. La prima riguarda i pregiudizi cognitivi e le bolle epistemiche: le nostre limitazioni mentali, unite alle caratteristiche strutturali degli ambienti digitali, amplificano la nostra vulnerabilità. Vediamo solo ciò che conferma le nostre idee e, di conseguenza, ci fidiamo di informazioni che ci sembrano familiari e coerenti. La seconda spiegazione è più scomoda e riguarda la pigrizia degli utenti. Non sempre siamo disinformati perché ingannati, ma perché non ci prendiamo il tempo di verificare, approfondire, dubitare. Qui entra in gioco la teoria del doppio processo, che distingue due modalità di pensiero: il primo sistema è veloce, intuitivo e automatico, mentre il secondo è lento, analitico e deliberativo. Le fake news prosperano soprattutto quando ci affidiamo al primo sistema: non si cade nella trappola della disinformazione perché si pensa troppo, ma perché non si pensa abbastanza.
Alla fine di tutto, ciò che emerge è una constatazione semplice ma spesso ignorata: siamo circondati quasi esclusivamente dalle informazioni che vogliamo sapere, da contenuti che confermano le nostre idee, le nostre convinzioni e il modo in cui già leggiamo il mondo. I social non ci mostrano ciò che è vero o falso in senso assoluto, ma ciò che è coerente con noi. Questo crea una comfort zone informativa in cui sentirsi al sicuro, compresi, rassicurati. Ma fuori da quella zona esiste altro: esistono pensieri diversi, linee di ragionamento lontane dalle nostre, persone che interpretano la realtà in modo opposto. Il problema non è che queste differenze esistano, ma che spesso non arrivino nemmeno a sfiorarci.
Il confronto, per quanto scomodo, non è una minaccia. Al contrario, è uno degli strumenti più potenti che abbiamo per evolverci. Mettere in discussione le proprie certezze non significa rinnegare ciò che si è, ma permettersi di crescere, di aggiungere complessità al proprio pensiero, di capire meglio anche se stessi. Esporsi a punti di vista differenti può portare a cambiare idea, ma anche a rafforzarla in modo più consapevole. In entrambi i casi, è un guadagno. In un ecosistema digitale che tende a semplificare e dividere, recuperare il valore del dubbio e del dialogo diventa quasi un atto rivoluzionario. Uscire, anche solo per un attimo, dalla propria bolla non significa perdersi, ma ampliare lo sguardo. E forse è proprio da qui che può partire una forma più matura di informazione e di partecipazione: non dal rifiuto dell’altro, ma dalla curiosità di capire perché pensa diversamente da noi.






