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Cultura | 26 giugno 2018, 12:04

"Archeoblondie": l'egittologa genovese al Museo di Torino

È l’unica archeologa genovese a lavorare per il Museo Egizio di Torino. Ha pubblicato due libri di ricette antiche e ha un blog, “Archeoblondie", in cui svela le curiosità sull’Antico Egitto. Si tratta di Marta Berogno, egittologa di Cogoleto

"Archeoblondie": l'egittologa genovese al Museo di Torino

È l’unica archeologa genovese a lavorare per il Museo Egizio di Torino. Col collega Generoso Urciuoli ha pubblicato due libri di ricette antiche, “Archeoricette” e “Gerusalemme: l’Ultima cena”. Ha un blog, “Archeoblondie. L’archeologia spiegata da una bionda”, in cui svela le curiosità sull’Antico Egitto, mentre fa divulgazione in giro per l’Italia. Si tratta di Marta Berogno, egittologa di Cogoleto, che a La Voce di Genova racconta le proprie scoperte e quella del predecessore genovese che ripulì la Sfinge e scoprì il Colosso di Menfi. E ci preannuncia che dal 7 luglio ci sarà una mostra sui gioielli egizi a Montecarlo.

Come sei arrivata a fare l’egittologa per il Museo Egizio di Torino?

Sono sia egittologa sia archeologa: soprattutto nei decenni scorsi, gli egittologhi erano quelli che sapevano leggere il geroglifico, mentre io ho voluto fare un percorso più archeologico, cioè pratico, per cui mi sono laureata in Conservazione dei Beni Culturali a Bologna, con specializzazione nel mondo Orientale in genere, per incentrare lo studio sull’Egitto, ma collocato all’interno del Mediterraneo, e infatti ho scavato anche in Sardegna. Poi ho fatto un Post Laurea all’Università di Genova, sempre su Oriente e Occidente e dal 2007 collaboro con il Museo Egizio per quanto riguarda la didattica e le visite guidate.

Continuano gli studi sulle ricette antiche?

Sì, con Generoso Urciuoli continua anche il progetto sul cibo, le archeoricette, per cui io mi occupo più della zona relativa all’Antico Egitto e lui di quella islamica. Intanto porto ancora in giro per l’Italia le conferenze sull’alimentazione degli Egizi. Abbiamo inoltre fondato il Centro Studi Petrie, dal nome dell’archeologo ed egittologo che per primo ha applicato un metodo scientifico nello studio dell’Antico Egitto, di cui si occupava oltre alla zona della Palestina. E infatti gli studi che stiamo facendo riguardano quegli ambiti. Cerchiamo in qualche modo di studiare materie che possono essere note, ma da un punto di vista diverso, e infatti cambiando il punto di osservazione emergono aspetti molto interessanti, come è successo, per esempio, con il cibo, su cui abbiamo sfatato il mito secondo cui in Egitto si mangiasse solo pane e birra.

E lo fai anche tramite i social: su Facebook pubblichi spesso curiosità e quesiti.

Sembra marginale il lavoro sui social, ma cerco, con un mezzo usato da chiunque, di fornire quelle nozioni che possono interessare, ma che non sono quelle banali. Infatti per me è una grande soddisfazione che chi non si occupa di storia ed egittologia se ne interessi, commenti e partecipi.

Per esempio avevi postato la foto di un oggetto misterioso. Hai scoperto di cosa si tratta?

Sì, non più tardi di tre giorni fa, mentre mi preparavo per una conferenza per la quale mi hanno chiesto di parlare del cane nell’Antico Egitto, ho scoperto che si tratta di un collare per cani. Proviene dalla Valle dei Re. Infatti il gatto era importante, ma anche il cane. E ce n'è anche uno imbalsamato. A differenza del gatto, i cani erano veramente i compagni dell’uomo nella vita quotidiana, ed erano raffigurati come persone di famiglia, col nome indicato accanto, cosa fondamentale, perché il nome era parte dell’anima nell’Antico Egitto.

Hai altri progetti in mente?

Ultimamente ho iniziato una nuova ricerca: da donna di mare, avendo notato che nelle ricerche c’è abbondanza di termini legati al mondo navale, anche se si pensa che navigassero poco, tranne che sul Nilo, voglio iniziare uni studio che riguarda la navigazione dell’Antico Egitto. Anche questo è un settore che nel mondo egittologico è messo un po’ da parte. Sembra un mondo molto conosciuto, ma tutto in realtà è sempre riportato all’ambito cerimoniale e istituzionale e meno agli altri. E poi vorrei fare qualcosa legato ai viaggiatori liguri, che possa essere uno spunto per parlare dell’Antico Egitto. Pensiamo anche alle collezioni: come sono arrivate qua, se non grazie a loro? La divulgazione è fondamentale, specie contro gli stereotipi.

E a proposito di liguri: nel tuo blog racconti le scoperte archeologiche dei genovesi.

Sì, per esempio di Giovanni Battista Caviglia, un Capitano che nel 1817 aveva ormeggiato la nave ad Alessandria d’Egitto, e che aveva avuto la concessione di scavo nella zona delle Piramidi. Pensa che è il primo che ripulisce la Sfinge. Ed è stato lui a scoprire che tra le zampe si trova una stele, poi chiamata la “stele del sogno”, con inciso un geroglifico che racconta come il principe Thutmosis, addormentandosi ai suoi piedi durante una battuta di caccia, vede in sogno la Sfinge, che gli chiede di liberarla dalla sabbia. Inoltre, sempre Caviglia, nel 1820 scoprì il colosso di Ramses a Menfi. Lo propose al Granduca di Toscana, ma siccome spostarlo era impossibile, ancora oggi è là disteso.

E poi anche d’Albertis fece gli scavi in Egitto.

Sì, il Capitano Enrico Alberto d'Albertis, che nacque a Voltri ed è noto per il suo castello, sede del Museo delle Culture, fu navigatore, geografo, botanico e molto altro; compì il giro del mondo svariate volte, fu il primo fra gli italiani ad attraversare il "nuovissimo" canale di Suez. E scrisse nel suo "Periplo dell'Africa": "Chi beve l'acqua del Nilo una volta, ritorna a berne." Nei periodi di inattività, infatti, soggiornava in Egitto o a Capo Noli, e ad Alessandria d'Egitto conobbe l'egittologo Ernesto Schiaparelli, ex direttore del Museo Egizio di Torino, e così si dette anche all'archeologia, partecipando a campagne di scavo a Luxor nella Valle delle Regine. All’epoca l’archeologia era un passatempo per i nobili.

Tornando alle antiche ricette: i Liguri hanno qualche piatto in comune con gli Egizi?

Generoso e io abbiamo fatto un lavoro filologico sui termini che riguardano l’alimentazione, dal nome della pentola ai nomi dei preparati, e tra questi compare la “farinata”. Non è tanto da intendersi come quella ligure, ma più una sorta di polenta. Però in geroglifico esiste il termine farinata! E nella sepoltura di Ramses III, in una sala laterale è raffigurato la preparazione dei dolcetti, con scene in cui si vede, come si sapeva già da fonti greche come Erodoto, che le grandi quantità di pasta erano impastate con i piedi, esattamente come succedeva anche da noi. Sono tutti aneddoti che ci servono, quando andiamo in giro a raccontare dell’Antico Egitto, a dare una sorta di tridimensionalità agli Egizi.

E la famosa maledizione di Tutankhamon?

Per un archeologo la vera maledizione è non riuscire a entrare nella tomba! Quando vedi un varco la prima tentazione è quella di passarci, mentre prima bisognerebbe controllare che sia in sicurezza. La maledizione è legata a fantasia. E quella è nata quella da alcuni giornalisti: la scoperta della tomba di Tutankhamon era stata venduta al Times in esclusiva. Così gli altri giornalisti, tra cui Arthur Conan Doyle, si sono inventati la maledizione.

Medea Garrone

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