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Attualità | 13 marzo 2020, 18:11

Il sociologo Paolo Crepet: “Ora serve una responsabilità collettiva”

Secondo il popolare scrittore, saggista e volto televisivo, “dobbiamo adattarci a questa vita, sperando che sia per quindici o venti giorni ma, se sarà necessario, anche per due o tre mesi. Adesso il virus è ovunque, bisogna stare attentissimi”

Il sociologo Paolo Crepet: “Ora serve una responsabilità collettiva”

Nell’atmosfera surreale che si vive da qualche sera, nel buio dei rapporti sociali, delle distanze di sicurezza, delle mani non strette, degli abbracci e dei baci non dati, degli aperitivi non presi, i pranzi e le cene non consumate e tutto il resto che ci terrà lontani dalla vita reale chissà per quanto, ecco che un ruolo ancor più centrale del solito, nella comunicazione e nella ricerca di un minimo di contatto (umano, seppur virtuale), lo giocano i social network.  

In queste ore sono nati, soprattutto su Facebook, diversi gruppi che utilizzano l’hashtag #iorestoacasa. È molto più di uno slogan, non è neppure una moda, né un trend topic: questa volta è un invito accorato, un invito fatto con tutto il cuore e con ogni possibile raccomandazione. Perché più si resta a casa, più si rallenta il rischio di contagio.  

Poi, ci sono moltissime piattaforme che hanno aperto a tutti, online, i loro servizi in streaming: per guardarsi un film, una serie tv, un documentario, anche senza essere abbonati. Un bell’esempio, su tutti, è quello della Fondazione Cineteca di Milano, che ha reso gratuito per questi giorni tutto il suo catalogo: è sufficiente registrarsi. C’è chi fa il teatro online, chi appronta promozioni sugli ebook e sulle consegne di libri a casa, mentre le reti generaliste (finalmente, verrebbe da dire) hanno alzato il livello della loro programmazione, anche con contenuti che non siano smaccatamente trash.  

Per un popolo che non è assolutamente abituato a stare a casa, come quello italiano, sono due settimane (se non sarà necessario più tempo) del tutto insolite, del tutto nuove. Ma nelle quali si può anche riscoprire il senso di qualcosa. Nelle quali si può arrivare a capire che non è tutto negativo.  

Di questi e di tanti altri temi abbiamo dialogato (al telefono, ça va sans dire) con Paolo Crepet, il popolare psichiatra, sociologo e saggista, uno dei volti più noti del piccolo schermo e da sempre molto preparato sui suoi temi specifici. “Non ho mai visto una roba del genere, mai”, sono le prime parole di Crepet: “È una situazione nuova anche per me, ma nella quale non mancano gli spunti di riflessione”.  

Professor Crepet, anzitutto non si può non notare come in questi giorni sia cambiata la socialità: da quella reale, che da sempre caratterizza il nostro popolo, a quella quasi esclusivamente virtuale. Che ne pensa? 

“La società dispone ormai di tutti quelli strumenti moderni per poter comunicare e per poter andare avanti comunque, per lo meno in parecchi ambiti. Questi strumenti, come Internet, sono indubbiamente una risorsa. È evidente che, specialmente in questi giorni, ci incontriamo e ci incontreremo tutti di più sulle piazze virtuali. Ma bisogna saperle usare bene, perché nascondono comunque moltissime insidie”. 

Si riferisce alle fake news? 

“Certamente. Bisognerebbe che si raccontasse soltanto la verità, ma sappiamo che non è affatto così. Sono stati commessi molti errori, anche dalla stampa diciamo tradizionale, dall’inizio di questa emergenza del Coronavirus. Piccoli e grandi errori, non so se in buona o in cattiva fede. Io ritengo che andrebbe un minimo cambiata la gerarchia delle notizie, di questi tempi, a cominciare dai telegiornali: a me dispiace che si apra tutte le sere il tg con il ‘bollettino di guerra’. Quanti morti, quanti contagiati, il picco che deve ancora arrivare, il virologo che parla ecc ecc. Perché non si apre il telegiornale parlando dei guariti? Parlando di quei medici che stanno facendo guarire il famoso paziente uno? Queste sono le prime cose che mi vengono in mente. È un aspetto psicologico fondamentale, a mio avviso, per la coscienza collettiva: dare una notizia che sia un minimo consolatoria. Non si può picchiare sul male e sulla negatività e basta. La bella notizia va data, non per una sorta di happy end buonista, ma per dire che da questa emergenza si può uscire”.  

A Codogno, primo focolaio in Italia, si sono registrati nei giorni scorsi zero contagi. 

“Ecco, un’altra notizia da dare subito. A Codogno, posto ormai famoso in tutto il mondo, grazie alle misure drastiche adottate, che sono state poi estese a tutta Italia, si è sviluppata la cosiddetta ‘immunità di gregge’. Qui il virus sembrerebbe quasi morto. È ora Codogno il posto più sicuro in Italia, mentre dalle altre parti non credo proprio che finirà tutto il 3 aprile. Speriamo che la curva inizi a scendere e, nel frattempo, atteniamoci alle regole”.  

È vero che gli italiani sono un popolo di indisciplinati? Cosa ne pensa? 

“Prendiamo un solo esempio: quegli imbecilli di Codogno che sono andati a sciare in Trentino. Ecco, questi comportamenti non basta che vengano stigmatizzati. Ma vanno puniti in maniera esemplare. Volete scommettere che se a queste persone avessero comminato duecentomila euro di multa, non sarebbe più uscito nessuno dalla zona rossa? E invece abbiamo visto scene come quelle dell’assalto ai treni di sabato sera a Milano. Questi sono comportamenti da imbecilli e da irresponsabili. Non parlo di indisciplinati, perché vado oltre: essere indisciplinati significa andare in autostrada a 150 chilometri orari invece che a 130. In tempi di Coronavirus, invece, mettersi in duecentocinquanta in coda davanti a uno skilift, come se questa fosse una vacanza e non una situazione di emergenza sanitaria nazionale, come se non ci fossero persone, anche giovani, che stanno morendo, è imbecillità totale e senso di irresponsabilità. Vuol dire che le persone non hanno capito niente. E la cosa più grave è che questi comportamenti folli partono dalla borghesia, da quella che dovrebbe essere la classe dirigente del Paese. Quei genitori che non dicono ai propri figli di stare a casa, che non li prendono abbastanza a calci nel sedere. L’altro aspetto, purtroppo, sono poi gli anziani. Sono giorni che si raccomanda loro di stare a casa. E, spesso, li vediamo affollare i mercati per comprare due triglie. In trecento a comprare due triglie. Siamo al tempo della peste, lo hanno ancora capito o no?!”.  

La manfrina calcio sì, calcio no è stata stucchevole, non trova? 

“Assolutamente. Ancora una volta, il mondo del calcio ha dato piena dimostrazione di vivere con delle regole a sé. In questa situazione, vorrà dire che salta il campionato. Che dobbiamo fare? Credo che il Paese abbia problemi più grandi in questo momento. Se il venditore di stoffe guadagna di meno, vorrà dire che può guadagnare di meno anche un calciatore. Ma che senso ha? È la classica dimostrazione che i soldi sono più importanti di molte altre cose. Vorrà dire che le società rinegozieranno i diritti televisivi. A me non sembra questo problema così insormontabile. I sacrifici dovremo farli tutti e ci saranno persone che, quando sarà finita questa emergenza, statene certi, non si rialzeranno più”.  

Lo Stato ha garantito ammortizzatori sociali e sostegno per tutti.  

“Sì, speriamo anche che si passi dalle parole ai fatti. Troppe volte nella nostra storia non è accaduto. Io però una cosa su questo Governo la voglio dire: nessun Governo poteva aspettarsi una situazione del genere, nessun Governo è in grado di gestire una situazione del genere, in nessuna parte del mondo. L’Italia si è trovata per prima a dover far fronte a un’emergenza che, molto probabilmente, ora interesserà l’intera Europa. Giusto l’aver chiuso tutto, altrimenti in pochi giorni si sarebbe arrivati a cinquantamila contagi. Dobbiamo adesso adattarci a questa vita, sperando che sia per quindici o venti giorni ma, se sarà necessario, anche per due o tre mesi. Adesso il virus è ovunque, bisogna stare attentissimi”.  

Il virus, peraltro, ha messo in luce tante criticità endemiche del Paese. È d’accordo? 

“Anche questo è molto vero. Prendiamo ad esempio la scuola. Ci voleva un Coronavirus per far vedere che molte scuole non hanno neppure la carta igienica? O che parliamo tanto di lezioni online e di streaming e di telelavoro, e ci sono parecchie zone d’Italia che non sono raggiunte neppure da una linea non dico veloce, ma almeno accettabile? Su queste cose siamo indietro di trent’anni: e l’epidemia lo ha mostrato in modo spietato. Non è mai stata fatta programmazione, e non parliamo poi di respiratori e di mascherine. Ma non è che lo Stato da solo può arrivare a far tutto”.  

Servono altri contributi? 

“E certo! Servono i contributi da parte dei privati. L’Italia è uno dei principali paesi del mondo per concentrazione di capitale privato. Come mai questi signori non svincolano un minimo delle loro somme, per donare, ad esempio, dei posti letto alle rianimazioni? Anche questo è fare comunità, anche questo è essere cittadini responsabili. In America abbiamo visto spesso il grande capitalismo muoversi per aiutare tutti, a cominciare da uno come Bill Gates. I nostri imprenditori dove sono? Cosa stanno facendo? È questa l’ora in cui ci si vede in faccia gli uni con gli altri. Vogliamo andare tutti in cielo con la coscienza un po’ più pulita?”.  

In chiusura, ne usciremo? 

“Bisogna essere ottimisti. Io alle idee, al talento e alla forza di questo Paese credo moltissimo. Sì, ne usciremo se sapremo, per una volta, essere uniti e responsabili”.

Alberto Bruzzone

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