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Attualità | 23 gennaio 2019, 18:31

Brexit: a che punto siamo e dove potremmo andare a finire

È passata ormai una settimana da quando uno dei parlamenti più antichi del mondo ha bocciato il trattato di ritiro del Regno Unito dall’Unione Europea che il Primo Ministro Theresa May aveva negoziato con la Commissione

Brexit: a che punto siamo e dove potremmo andare a finire

Il “divorzio amichevole”, come Donald Tusk ha definito Brexit con un infelice ossimoro, incombe ormai sul nostro continente, a poco più di due mesi. Con la politica impantanata nell’apparentemente irrisolvibile scontro ideologico, la City di Londra e il mercato europeo in generale richiamano con angoscia gli uomini di potere al pragmatismo, mentre le aziende e le autorità doganali cercano con affanno di prepararsi a contenere il danno economico nel caso il Regno Unito uscisse senza un trattato (no deal Brexit) 

È passata ormai una settimana da quando uno dei parlamenti più antichi del mondo ha bocciato il trattato di ritiro del Regno Unito dall’Unione Europea che il Primo Ministro Theresa May aveva negoziato con la Commissione. Mai nella lunga storia di Westminster un governo era stato messo sotto con una maggioranza schiacciante di 230 deputati. Questo perché il documento, che per natura era un compromesso tra hard e soft Brexit inteso a raccogliere sostegno dalle varie frange politiche, ha in realtà unito le due fazioni contro di esso, oltre a coloro che avrebbero votato contro qualsiasi uscita dall’UE, come i Nazionalisti Scozzesi.

Ovviamente, le ragioni di questo veto parlamentare sono molto varie: vi è chi, come i Labouristi, desidera la continuità dell’unione doganale con l’Europa dopo Brexit ma con il diritto di aver voce in capitolo nelle politiche commerciali europee (cosa che peraltro la Commissione fin dall’inizio ha dichiarato non ammissibile) e chi invece si accontenterebbe della sola unione doganale (stile Turchia) per non ricreare una frontiera in Irlanda; altri, come alcuni Conservatori, che vorrebbero ritenere l’appartenenza al mercato unico europeo per non frustrare il commercio dando via però potere legislativo (stile Norvegia); altri ancora, come i Liberali, che chiedono un secondo referendum per principio.

Dalla parte opposta, le correnti conservatrici di destra trovano l’Irish backstop nel trattato ripugnante: è stato definito dai giuristi come una “assicurazione” che terrebbe tutto il Regno Unito nell’unione doganale e nel mercato unico indefinitamente se dopo i due anni di transizione della Brexit i governi britannici ed europei non sono riusciti a negoziare un nuovo trattato commerciale. Ciò era necessario per garantire il “confine aperto” in Irlanda la cui chiusura potrebbe riaprire il conflitto tra repubblicani e roialisti che negli anni ’70 aveva quasi portato alla guerra civile in Irlanda del Nord, ma per alcuni Conservatori sovranisti il backstop equivale a vassallaggio e ora tifano per una no deal Brexit.

Insomma, la situazione è molto complessa e pericolosa e soltanto una cosa è certa. Oggi come oggi, se non cambia nulla, il Regno Unito uscirà dall’Unione Europea il 29 marzo alle 11 di sera senza un trattato di “divorzio amichevole”, come Donald Tusk - il presidente del Consiglio Europeo - ha definito Brexit con un infelice ossimoro, il che vuol dire che non ci sarà nessun periodo di transizione fino a dicembre 2020 per negoziare un trattato commerciale.

Nonostante l’impegno dei governi anglo-irlandesi di tenere aperta la frontiera irlandese in qualsiasi scenario, l’Unione Europea dovrà probabilmente interferire e costringere la Repubblica d’Irlanda a chiudere il confine (tralasciando l’eticità di tale decisione).

Mentre la City di Londra e il mercato europeo in generale richiamano con angoscia gli uomini di potere al pragmatismo, le aziende e le autorità doganali cercano con affanno di prepararsi a contenere il danno economico: secondo il governatore della Banca d’Inghilterra, infatti, gran parte del settore privato è completamente impreparato per una no deal Brexit in entrambe le coste della Manica, anche se una delle due soffrirà molto di più. L’Italia, nel breve termine, potrebbe perdere la gran parte dei suoi 22 miliardi di euro di esportazioni in Regno Unito,

Ci sarebbero ritardi di ore e ore alle dogane perché per un tale evento le autorità sono per ora non adeguatamente finanziate per eseguire tutti i controlli previsti dalla legge anche per le merci provenienti dall’UE. Per molte fabbriche britanniche che dipendono sulle merci europee per le loro mansioni, questo potrebbe significare bancarotta: secondo uno studio dell’istituto CIPS, un’azienda britannica su dieci darebbe il giro con soli trenta minuti di ritardo. Ritornerebbero i dazi doganali fissati secondo le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Sì, è vero, si sarà completamente liberi dalle leggi e istituzioni europee e si potrà avere una propria politica commerciale nel mondo intero, ma a che prezzo?

Negli ultimi anni, diverse proiezioni economiche sono state smentite dai fatti, come quelle che avevano previsto una recessione in Gran Bretagna semplicemente votando per Brexit al referendum (ora, invece, la disoccupazione del paese è in continua discesa). Il mercato britannico è però di certo molto timoroso di una no deal Brexit. Dopo la disastrosa sconfitta, Theresa May ha comunque vinto la fiducia del parlamento: ora sta a lei decidere cosa fare. Rinviare o annullare Brexit con un secondo referendum, o tentare di ottenere concessioni in extremis dalla Commissione Europea per far approvare dai deputati il suo trattato? Sembrerebbe che la “donna di ferro” abbia optato per quest’ultima. Ma la strada è in salita e il tempo scorre. Se fallisse, avremmo o il disastro economico di una no deal Brexit o il disastro democratico di doverla bloccare completamente.

Nicola Gambaro

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