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Attualità | 28 febbraio 2020, 17:26

Il Coronavirus… sta diventando “virale”?

La rapida escalation del virus nel giro di poco più di 48 ore, a partire da venerdì 21 febbraio, ha fatto sì che si sia velocemente propagato in tutta Italia – e quindi anche nella nostra Regione – uno stato di allarme e di preoccupazione molto forte

Il Coronavirus… sta diventando “virale”?

Lo so, il titolo del post odierno, può apparire forse un po’ inappropriato per la situazione decisamente critica che sta attraversando il nostro Paese e, in ogni caso, il sottoscritto non intende né minimizzare né tanto meno buttarla sul ridere. La vicenda del “Coronavirus” è delicatissima e sta pesantemente impattando non solo la salute degli italiani ma anche (e soprattutto) il loro stato d’animo e più in generale l’economia della nostra nazione: le ricadute, in termini di produttività e di immagine, sono molto gravi. E’ innegabile tuttavia che il profluvio di commenti e post sui media e sui social, dibattiti televisivi in molti casi abbia assunto connotazioni parossistiche e, direi appunto, virali.

Personalmente ritengo che bisognerebbe uscire dallo stucchevole contrasto tra prese di posizione iper-allarmistiche da un lato e quasi banalizzanti dall’altro: come spesso accade in vicende di così forte impatto, sociale e mediatico, il rischio che si corre e che diventa, ahimè, realtà fattuale è quello di non mettere a fuoco con la dovuta lucidità la realtà delle cose.

Non mi dilungo ulteriormente perché credo che, purtroppo, su questo argomento avremo modo di soffermarci ancora per molto tempo né voglio fare commenti sulla incontrollata diffusione sulla Rete e sui media in generale di certe opinioni sia da parte di esponenti politici che di (più o meno) esperti virologi dall’altro. Ad oggi (28 febbraio) trovo che una sintesi equilibrata, motivata e ragionevole l’abbia fatta il dr. Matteo Bassetti, direttore della clinica di malattie infettive dell’ospedale San Martino di Genova, il quale non solo ha confermato che in Cina il virus è in calo ma soprattutto ha fatto alcune considerazioni a mio avviso assolutamente plausibili e fondate come quella per cui la malattia è reale ma non ci si deve far prendere dal panico (“E’ una malattia infettiva come tante altre e non bisogna fare allarmismo. Non si tratta della peste o di Ebola ma è una malattia infettiva che affronteremo e cureremo al meglio”) nonché quella secondo cui non occorre prendere precauzioni particolari né, tanto meno, serve mettersi le mascherine (“L’attenzione è talmente alta che non bisogna fare niente, bisogna sì lavarsi le mani, ma quelle sono misure semplici che dovrebbero essere sempre seguite.”), concludendo infine che “Francia e Germania dovrebbero pensare a casa loro invece di metterci in quarantena”.

Ma noi pendolari, come stiamo vivendo la situazione che si è venuta a creare in conseguenza della rapida espansione in Italia del Coronavirus?

Occorre puntualizzare che, almeno alla data di pubblicazione di questo post, alcune località ove i treni che collegano Genova con Milano (parlo in particolare di Voghera e Pavia) effettuano abitualmente le loro fermate intermedie sono state maggiormente impattate dal Coronavirus rispetto alla nostra città e alla regione Liguria. Ma la rapida escalation del virus nel giro di poco più di 48 ore, a partire da venerdì 21 febbraio, ha fatto sì che si sia velocemente propagato in tutta Italia –  e quindi anche nella nostra Regione – uno stato di allarme e di preoccupazione molto forte. Tant’è che nelle giornate di lunedì 24 e di martedì 25 febbraio lo scenario che si è presentato a noi pendolari genovesi appena arrivati alle stazioni genovesi (Brignole e Piazza Principe) è stato emblematico: pochissime persone sui marciapiedi, molte assenze tra i pendolari (e pochi presenti anche tra noi Compari dei quali uno in particolare non è passato inosservato: vedi la foto del “Dr: Lecter” pubblicata sul post odierno).

Inoltre il treno InterCity 652 (uno dei treni maggiormente utilizzati da noi pendolari) presentava molti posti liberi diversamente da quanto accade normalmente nei giorni lavorativi; questo treno, una volta arrivato a Voghera, ha caricato un numero decisamente sotto la media di pendolari locali mentre a Pavia le banchine erano quasi vuote e non è salito a bordo quasi nessuno.

Infine, scesi a Rogoredo, la stazione ferroviaria era pressoché deserta e, una volta raggiunta l’omonima fermata della metro gialla (la linea 3) e saliti sul primo convoglio, questo presentava intere carrozze semivuote, quando di solito in quelle fasce orarie si è appiccicati l’uno all’altro. A questi scenari, che potrei definire sottilmente inquietanti, aggiungasi il fatto che una rilevante percentuale dei passeggeri presenti sia sui treni che sulle metro si sono dotati di mascherina il che, al netto della loro effettiva utilità a non trasmettere il virus, ha contribuito a creare delle situazioni che almeno qui in Italia non eravamo abituati a vedere e che in un qualche modo riecheggiano certe scene di film del genere fantascientifico-catastrofista.

Tutto ciò è stato dovuto al fatto che la stragrande maggioranza delle attività pubbliche (scuole, università, spettacoli, visite turistiche, accesso ai bar non oltre le 18 etc) sono state bloccate dalla Regione Lombardia, analogamente a quanto deciso da altre Regioni (tra le quali Piemonte, Liguria, Veneto, Emilia Romagna) nonché dal fatto che molte aziende hanno opportunamente adottato misure di smart-working per i loro dipendenti proprio per evitare inutili e potenzialmente pericolosi flussi di persone verso le sedi di lavoro. Per quanto mi riguarda il gruppo bancario cui appartiene la società presso cui lavoro ha adottato da subito criteri di flessibilità per far gestire con discrezionalità, nelle singole società e nelle singole strutture, le varie situazioni. E prontamente il mio responsabile ha dato il suo benestare a che io, essendo uno dei dipendenti dell’azienda che impiega il maggior tempo la mattina per raggiungere l’ufficio partendo da casa e viceversa la sera, potessi usufruire di questa modalità di lavoro “in remoto” almeno per questa settimana. La qual cosa, da me formulata in termini di auspicio come opportunità per l’anno 2020 nel post del 7 febbraio scorso (“To be (Disconnected) or not to be (Disconnected): this is the question” e “Il lavoro nobilita l’uomo. O lo debilita?”), spero proprio che possa diventare un modus operandi strutturale e non episodico solo perché determinato da circostanze contingenti.

In conclusione, sottolineando che la situazione è tutt’ora in fieri e che quindi solo nei prossimi giorni e nelle prossime settimane potremo capire meglio che sviluppi potrà avere questa assai critica vicenda, mi limito a formulare l’auspicio che il nostro Paese riesca ad uscirne nel miglior modo possibile. Mi auguro inoltre che una volta esauritasi questa fase iniziale, caratterizzata da un diffondersi veramente “virale” di psuedo-notizie e di pseudo-informazioni scientifiche, si ponga concretamente mano, non tanto e non solo da parte delle Istituzioni italiane ma soprattutto da quelle europee (pressochè totalmente assenti fino ad oggi), alla messa a punto di procedure e di protocolli efficaci per far fronte a situazioni del genere.

Naturalmente sarà mia cura segnalare ai lettori di questa rubrica quali ricadute tutto ciò potrà avere anche sui trasporti ferroviari e su quelli de pendolari in particolare.

 

Egomet

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