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Sport | 08 giugno 2024, 08:34

Lo Sport che amiamo - Enzo Vattuone, il 'Vichingo di Pegli': "L'effetto Sinner c'è e sta facendo bene a tanti giovani tennisti"

Classe 1956, ha giocato sui campi principali del circuito ed è stato ai vertici italiani nel doppio: "Un tempo eravamo più poveri, ma facevamo presto amicizia. Borg un signore, McEnroe era terribile"

Semifinale torneo Bologna 1979 contro i numeri uno del mondo McEnroe e Fleming: Vattuone è il terzo da sinistra

Semifinale torneo Bologna 1979 contro i numeri uno del mondo McEnroe e Fleming: Vattuone è il terzo da sinistra

Prosegue questo sabato, e andrà avanti per tutti i sabati successivi, ‘Lo Sport che amiamo’, una nuova rubrica dedicata a personaggi e storie di sport della nostra città e della nostra regione. Ci piace raccontare quel che c’è oltre il risultato sportivo: il sudore, la fatica, il sacrificio, il duro allenamento, l’impegno, le rinunce, lo spirito del gruppo. Tanti valori che vogliamo portare avanti e mettere in luce con quello che sappiamo fare meglio: comunicandoli. Comunicarli significa amplificarli, ed ecco perché lo sport può diventare, sempre di più, ‘Lo Sport che amiamo’. Ci accompagna in questo percorso un giovane di belle speranze: Federico Traverso, laureando in Scienze della Comunicazione. L'ospite di oggi è Enzo Vattuone, ex tennista professionista, soprannominato il 'Vichingo di Pegli'. Buona lettura!

Nato a Pegli il 18 aprile del 1956, Enzo Vattuone, soprannominato il “Vichingo di Pegli”, è un ex tennista professionista italiano. Convocato 51 volte in Nazionale, ha giocato in tutti i tornei più importanti del circuito, come Wimbledon, Roland Garros, Australian Open, Roma, Barcellona e Monte Carlo. In doppio vanta la prima posizione nazionale assoluta nel 1982 e nel 1983 e una medaglia d’oro ai Giochi del Mediterraneo 1975, mentre in singolare ha ottenuto vittorie su Adriano Panatta, Paolo Bertolucci e Tonino Zugarelli tra gli altri. 

Enzo Vattuone, la tua passione per il tennis nasce fin da subito. Avevi la consapevolezza già da piccolo di poter “sfondare” nel professionismo? 
Hai detto bene, praticamente io sono nato sui campi da tennis, quelli del Tennis Club Pegli, lo storico circolo fondato negli anni Trenta attaccato all’Hotel Mediterranee. Mio papà è stato uno dei fondatori del circolo, e quando giocava con gli amici mi portava spesso. Io assistevo ai suoi allenamenti e ai suoi incontri attaccato alla griglia con passione, e non vedevo l’ora di poter emulare i suoi colpi. Quando ho potuto iniziare a 5-6 anni, ho subito giocato con tanta passione. Non prevedevo assolutamente di fare chissà quale carriera, per me era un gran piacere giocare a tennis, è sempre stato il mio amore. In seconda battuta ero appassionato anche al calcio, ma come sport praticato il principale è sempre stato il tennis.”

Anche se le immagini televisive dedicate al tennis erano davvero poche ai tempi, c’è qualcuno a cui ti ispiravi? Avevi un idolo tennistico o, più in generale, sportivo?
Ti faccio un esempio: quando avevo 10 o 11 anni, per la finale di Wimbledon la Rai si collegava per gli ultimi due giochi, quindi per noi erano immagini quasi sacre. I primi idoli sono stati gli australiani, era l’epoca di Rod Laver, John Newcombe, Ken Rosewall, erano loro i primi grandi giocatori che sognavo di emulare. Poi crescendo e facendo sin da giovane un’ottima carriera, diventando il campione italiano Under 16, ho cominciato a crederci e ad aspirare a un’attività in una dimensione internazionale. Questo mi ha confortato, perché sono andato a Miami Beach per i Campionati del Mondo Under 16 e sono arrivato quinto. Ero tra i migliori al mondo e, di conseguenza, non ho potuto che dedicarmi completamente al tennis.”

 E infatti hai vissuto in prima persona la prima, grande epoca del tennis italiano, condividendo il campo con i vari Panatta, Bertolucci, Barazzutti… Avvertivi di far parte di una generazione d’oro, di star vivendo un periodo di successo per il tennis italiano mai visto prima di allora? 
Sì, erano come dei fratelli maggiori. Io a 15 anni sono stato chiamato al centro di preparazione olimpica di Formia, dove c’erano per l’atletica persone del calibro di Mennea e Sara Simeoni e per il tennis c’erano appunto Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli. Mentre loro si allenavano tutto il giorno, noi più giovani della squadra Juniores andavamo a scuola la mattina e ci allenavamo il pomeriggio. Vivere con loro parecchie settimane, nello stesso albergo, nella stessa sala del ristorante e giocare sugli stessi campi era una grande emozione. Già Panatta all’epoca era un giocatore di livello internazionale e cominciava ad essere un idolo anche per noi.”

Nell’arco della tua carriera hai partecipato a tutti i più grandi tornei del circuito, tra cui Wimbledon, il tempio sacro di questa disciplina. Cosa si prova a calpestare quell’erba?
È l’emozione che ti aspetti da una vita, il sogno che avevi da ragazzino. Non avrei mai pensato di entrare su quei campi come giocatore, con il tesserino con scritto «player», quindi è stata un’emozione fortissima. Ho giocato al Roland Garros e all’Australian Open, ma Wimbledon ha un fascino particolare e lo ricordo come se fosse ieri.” 

A livello Under 16 in Europa eri dietro al solo Björn Borg, che hai incontrato più volte e con cui ti sei allenato in varie occasioni. Che rapporto avevi con lui, come lo descriveresti dentro e fuori dal campo?
Un bellissimo rapporto, lui è una persona eccezionale, di un’educazione, correttezza ed umiltà incredibili. Conservo ancora una foto di noi due, quando abbiamo giocato contro nella semifinale a Milano nel 1971: alla fine dell’incontro, dove lui vinse nettamente perché era il migliore al mondo e già pronto per giocare a livello professionistico, dandomi la mano chinò la testa in segno di rispetto. Me lo ricordo ancora adesso, perché è un segnale della grandezza della sua persona oltre che di giocatore. Successivamente ci siamo visti spesso nei tornei, e qualche anno dopo al torneo di Milano, uno dei più importanti al mondo, mi ha chiesto la sera prima di allenarlo alle 9 del mattino perché doveva giocare i quarti di finale il giorno dopo contro Stan Smith. Ho aderito di corsa alla sua richiesta, mi ha fatto molto piacere e, anche se spesso da lontano, è rimasta la grande amicizia.

 L’opposto del suo rivale di sempre, McEnroe, che hai incontrato a Bologna nel 1979…
McEnroe l’ho conosciuto sia sul campo come avversario sia al di fuori dei match ed era veramente terribile. Specialmente all’inizio gli davano vari soprannomi come “il moccioso”, era abbastanza “cattivo”. Poi col tempo è migliorato, oggi è diventato come Connors una persona stupenda, ma giocarci contro in quel periodo faceva paura. Era tremendo, ma unico.”

Per due anni di fila, nel 1982 e nel 1983, hai raggiunto la prima posizione nazionale assoluta in doppio. Una disciplina che oggi sembra essere un po’ dimenticata, con i più grandi campioni che la giocano quasi solo come allenamento. Ti dispiace che il doppio non sia più ai fasti di un tempo?
Giocando un centinaio di tornei ATP ti posso dire che il doppio attuale è qualcosa che non c’entra nulla con i nostri doppi. All’epoca solo Borg tra i più grandi non giocava il torneo di doppio. Tutti gli altri si iscrivevano anche alla gara di doppio. Di conseguenza, il tabellone era formato da gente fortissima. Adesso di giocatori discreti ce ne sono 3 o 4, e gli altri sono quasi tutti sconosciuti attirati perlopiù dagli alti montepremi. È una disciplina totalmente diversa da prima, anche come tattica: oggi tutto gira intorno alla potenza, tirano una prima di servizio sperando che entri e poi giocano da fondocampo. Noi giocavamo il vero doppio, con gli specialisti che scendevano a rete dopo il servizio e davano luogo a parecchi scambi ravvicinati, perché il vero doppio si gioca sotto rete.”

In generale si può dire che tu sia riuscito a fare della tua passione un lavoro. Fare il tennista professionista, però, comporta anche grandi sacrifici. In un tennis diverso da quello di oggi, che difficoltà hai incontrato durante i tuoi anni nel circuito?
I giovani oggi vedono questo tennis dorato, con montepremi altissimi e rimborsi. Considera che negli anni Ottanta, quando andavo a giocare a Parigi o a Wimbledon, eri spesato dalla sera prima al mattino del giorno in cui perdevi. Ti pagavano giusto la colazione e poi dopo era tutto a tuo carico. Adesso ti ospitano una settimana prima e puoi rimanere una settimana dopo. Ai miei tempi era tutto molto più difficile: dovevi arrivare all’ultimo perciò non potevi allenarti su quella specifica superficie, e se arrivavi prima era tutto a tuo carico. Era completamente diverso dal tennis attuale, anche per quanto riguarda i montepremi. Ti faccio un riferimento che però è basilare: Panatta, un grandissimo del tennis che è arrivato ad essere numero 4 del mondo, ha guadagnato in tutta la sua carriera 700.000 dollari. Oggi quei soldi li prendi facendo un quarto di finale in un torneo dello Slam. Non c’è proporzione. In generale la nostra vita era molto più dura, ad esempio durante le trasferte, magari negli Stati Uniti, eri senza internet e senza cellulare, siamo stati in Australia 45 giorni e i contatti con casa erano molto difficili. La famiglia la sentivi una volta a settimana perché telefonare costava, oggi è tutta un’altra cosa.

 C’è qualcosa che invece manca al tennis di oggi e che invece c’era prima? 
Avendo vissuto la vita di spogliatoio dall’interno, posso dirti che c’è molta meno amicizia. Ognuno oggi ha il suo team, con il preparatore fisico, allenatore, viceallenatore e il manager per i contratti: noi non avevamo nessuno, ma non solo io, anche lo stesso Panatta, non avevamo né coach né manager. C’era soltanto Belardinelli, della Federazione, che è stato un po’ il nostro padre tennistico a Formia. Di conseguenza si mangiava tutti assieme, si rideva, si scherzava, si entrava in campo sì da avversari ma era un’altra cosa. Adesso tutti i team sono “blindati”, è difficile che ci sia qualche amicizia come quella che è nata a lungo termine tra Nadal e Federer, un caso quasi unico.”

 Tornando al presente, da lunedì Jannik Sinner sarà il primo numero uno al mondo italiano della storia. Si parla molto dell’”effetto traino” che un campione come lui possa avere sul movimento tennistico nazionale: tu personalmente avvertivi questa spinta dai campioni tuoi connazionali, su tutti Panatta?
Sì, ma in termini minori. Oggi l’effetto-Sinner è estremamente trainante, sono arrivati dei giocatori che fino a un anno fa erano semisconosciuti, come Cobolli o Darderi. Questo ha dato molta motivazione ai giocatori e ha fatto capire ad alcuni di avere le capacità di esplodere. Per noi era un po’ diverso, percepivamo la spinta ad emulare i campioni ma era più difficile proprio per l’aspetto strutturale ed economico del tennis di allora. Di conseguenza non potevi permetterti di avere una programmazione dei tornei tranquilla, dovevi fare molti calcoli. Ad esempio, pur essendo nel tabellone non ho mai giocato gli US Open perché andare a New York comportava costi notevoli, quindi si preferiva fare tornei qui in Europa con meno spese. Ho fatto il tennista professionista ottenendo risultati importanti giocando 6 o 7 mesi all’anno, mentre i restanti 4-5 mesi invernali facevo l’istruttore poter ripartire economicamente con i tornei in primavera: questo la dice lunga su come i tempi siano cambiati.” 

Nella foto al centro dell'articolo: Vattuone alla semifinale del Torneo di Milano Under 16 contro Borg. Qui sotto: la Nazionale Italiana alla Coppa Europa del 1976 con Barazzutti, Zugarelli, Ocleppo e Vattuone.

 

Federico Traverso

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