Cornigliano e il suo cuore d’acciaio sono più di un luogo. Sono spazi dove la memoria si incrocia con il rumore dei treni merci, con l’odore del ferro, le mani di chi ogni giorno entra in fabbrica.
L’ex Ilva è pezzo di Genova che ha dato forma, lavoro e direzione alla città. Uno stabilimento che ha attraversato il Novecento, si è reinventato nel nuovo millennio, e oggi cerca ancora una ragione d’esistere. Tra incertezze industriali, trasformazioni urbane e un futuro sospeso, proviamo a dire cosa potrebbe essere, partendo da cosa è stato.
Le origini: una storia d’acciaio e sacrifici
Cornigliano non nasce con l’acciaio e con l’acciaio si trasforma. E si piega. Perde le sue ville liberty, sacrifica il Castello Raggio sull’altare della modernità industriale. È il 1934 quando la SIAC (Società Italiana Acciaierie Cornigliano) inizia a operare, segnata dalla grande promessa della siderurgia. Dopo la guerra, il Piano Sinigaglia rilancia lo stabilimento, facendone uno dei pilastri del miracolo economico italiano. Una città nella città: migliaia di operai, turni di notte, forni accesi a ogni ora. Genova diventa acciaio, e l’acciaio diventa destino. In quegli anni, Cornigliano cambia pelle: si industrializza, si popola, si appesantisce. Ogni famiglia ha qualcuno là dentro. Il lavoro è duro, ma garantito. Le sirene dell’acciaieria diventano parte del paesaggio sonoro della città. Nessuno immagina che un giorno potrebbero spegnersi.
Da Italsider a Ilva: il sogno che si spezza
Nel 1967 l’integrazione nella galassia di Italsider consolida il peso dello stabilimento a livello nazionale. La fabbrica è strategica, ma il contesto cambia. L’acciaio europeo entra in crisi, la concorrenza asiatica si fa spietata. Le crisi petrolifere, la finanziarizzazione dell’economia, la fine del grande sogno industriale pubblico segnano la parabola discendente. Dopo la breve parentesi statale, si passa al privato. Negli anni Novanta, il Gruppo Riva prende il controllo. Cambiano i vertici, ma non le tensioni. La pressione sui costi, la riduzione degli investimenti, le condizioni ambientali diventano esplosive. I lavoratori scendono in piazza, gli scioperi si moltiplicano, il rapporto tra fabbrica e città si complica. Si inizia a parlare di riconversione, di bonifiche, ma mancano visione e risorse. Genova si scopre vulnerabile.
L’Accordo del 2005: un patto tra memoria e futuro
Il 2005 è una frattura. Dopo anni di mobilitazioni, si chiude l’area a caldo. Muore un pezzo della vecchia acciaieria, ma nasce l’illusione di una rinascita. L’Accordo di Programma tra Governo, Regione, Comune, azienda e sindacati sancisce la transizione: restano le lavorazioni a freddo, resta l’acciaio, ma con un nuovo equilibrio tra produzione e ambiente. Vengono mantenuti mille posti di lavoro, si ipotizzano investimenti, si promette un futuro diverso. Ma molte promesse rimangono sulla carta. Le aree dismesse non vengono recuperate, i progetti di riqualificazione arrancano, la logistica portuale si affaccia senza un disegno chiaro. Le parole ‘vocazione industriale’ tornano di moda, ma nessuno chiarisce con quali contenuti, quali tecnologie, quali garanzie. Cornigliano resta ferma: né dentro, né fuori la fabbrica.
Oggi: uno stabilimento che resiste, ma non cresce
Nel 2025 lo stabilimento lavora al 70% della sua capacità. Produce banda stagnata e zincata, per il mercato nazionale ed europeo. Ma l’aria è ferma. Gli impianti invecchiano, gli investimenti tardano. A febbraio, il direttore generale Maurizio Saitta spiega che servono nuove risorse per riportare l'impianto a pieno regime. Intanto, 178 lavoratori sono in cassa integrazione. E su tutto pesa la crisi di Taranto: l’incendio all'altoforno 1 ha bloccato il cuore della produzione del gruppo, riverberando anche su Genova. Le prospettive sono nebulose. Si parla di installare un forno elettrico, ma non c’è un progetto concreto. I sindacati denunciano il silenzio delle istituzioni e la fragilità della catena produttiva. A Cornigliano si va avanti per inerzia, con la consapevolezza che l’equilibrio è precario. E che basta poco per farlo crollare.
Una vendita, tante domande
Acciaierie d’Italia è in vendita. A gennaio arrivano dieci offerte. A marzo, il governo apre una trattativa esclusiva con la cordata guidata da Baku Steel, affiancata dalla compagnia petrolifera statale Socar e da Azerbaijan Investment Company. Un colosso che promette investimenti e rilancio. Per Genova, si parla di mantenimento delle attività e forse di un forno elettrico. Ma il piano industriale non è ancora stato presentato, e i sindacati chiedono garanzie: sull’occupazione, sulla sicurezza, sull’utilizzo delle aree. L’accordo con Invitalia, il ruolo dello Stato, le bonifiche, la logistica portuale: tutto resta sospeso. In gioco non c’è solo il futuro di uno stabilimento, ma l’identità industriale della città. La politica osserva, a tratti interviene, ma fatica a dettare la rotta.
Cornigliano contesa: tra acciaio e riconversione
Il quartiere resta in bilico. Da un lato, c’è chi difende la vocazione industriale: è il caso della candidata sindaca Silvia Salis, che ribadisce come “quelle aree servano tutte allo stabilimento”. Dall'altro lato, c'è chi, come Mattia Crucioli, chiede di immaginare un futuro post-industriale. E poi ci sono le proposte intermedie, come quelle di Pietro Piciocchi, che parlano di equilibrio tra lavoro, ambiente e riqualificazione. I residenti assistono. Cornigliano è diventata una linea del fronte: tra chi vuole preservare e chi vuole cambiare. Ma senza un progetto comune, resterà solo un campo conteso.
Una questione che tocca tutti
Acciaio, lavoro, ambiente. Non è solo una vertenza sindacale. È una questione che tocca la città. Lo sanno bene i residenti, stretti tra binari, polveri, e la paura di un declino irreversibile. Lo sanno i lavoratori, che resistono con l’attenzione sempre alta alle parole di chi comanda, chi decide. Lo sanno le istituzioni, che oscillano tra prudenza e promesse. Cornigliano continua a vivere un tempo sospeso, come una macchina ferma con il motore acceso. In attesa di una rotta, di una visione, di un futuro che non sia solo sopravvivenza ma rinascita. Perché il rischio, oggi, non è solo quello di perdere una fabbrica. È quello di perdere il senso di una comunità. Di spegnere il fuoco che ha tenuto in vita un intero pezzo di Genova.