Ogni domenica 'La Voce di Genova', grazie alla rubrica ‘Gen Z - Il mondo dei giovani’, offre uno sguardo sul mondo dei ragazzi e delle ragazze di oggi. L'autrice è Martina Colladon, laureata in Scienze della Comunicazione, che cercherà, settimana dopo settimana, di raccontare le mode, le difficoltà, le speranze e i progetti di chi è nato a cavallo del nuovo millennio.
La manifestazione del 28 novembre a Genova, indetta da Unione Sindacale di Base (USB) e altri sindacati di base, ha attirato migliaia di persone. Cortei a piedi e in mare, partiti da Brignole, hanno attraversato il centro e raggiunto i varchi portuali, con l’obiettivo di protestare contro quella che il sindacato definisce la “manovra di guerra” del Governo: aumento della spesa militare, tagli al welfare, contrazione di diritti sociali, salari e pensioni stagnanti. Tra gli ospiti annunciati c’erano nomi noti su scala internazionale: Greta Thunberg, Francesca Albanese, l’ex ministro greco Yanis Varoufakis, artisti e intellettuali.
Per molti giovani e sostenitori della mobilitazione, quella giornata è stata un modo per alzare la voce: contro il riarmo, contro il destino imposto da politiche ritenute inique, per chiedere investimenti in sanità, scuola, diritti sociali, lavoro degno. Hanno partecipato personalità, attivisti, studenti, lavoratori, chiunque si sentisse direttamente toccato da quelle scelte. Per loro manifestare è ancora uno degli strumenti di democrazia e di speranza, un’occasione per credere che le cose possano cambiare, o almeno provarci.
Ma quella stessa manifestazione ha scatenato critiche, dubbi e alcune forti tensioni nell’opinione pubblica. Dopo il corteo non sono mancati commenti indignati: “Bloccano la città per cause che non capisco”, “Non sanno neanche loro perché sono lì”, “Solo disagi, niente risultati”. Nei bar, sui mezzi, sui social la polemica si è subito accesa, con messaggi che parlano di una città paralizzata, di traffico impazzito, di studenti e lavoratori costretti a spostarsi con ore di ritardo o rimandare impegni.
Per molti, la manifestazione è sembrata più un costo che un valore. In particolare il nodo del trasporto ha acceso molte critiche: con lo sciopero generale proclamato l’intera giornata, dai mezzi pubblici al trasporto ferroviario, fino ai servizi comunali, molte persone si sono ritrovate senza mezzi per muoversi, con conseguenze su studenti, lavoratori, utenti. In questo senso, la protesta, che per alcuni rappresenta un atto di diritto e di consapevolezza, per altri è un disagio concreto.
C’è poi un’altra critica molto sentita, soprattutto tra i giovani più scettici: la presenza di figure note, celebri, a volte percepite come “mediatiche”. Alcuni hanno espresso diffidenza: sentono che certe personalità siano state scelte più per la visibilità mediatica che per un reale legame con le istanze locali. Si dubita della sincerità, si chiede se sia possibile che chi sale su un palco per un giorno rappresenti davvero le vite quotidiane di chi lavora, di chi vive in una città reale.
In molti casi la critica non si limita al “disagio”: si arriva anche all’attacco, all’insulto, al disprezzo. Non solo critiche adulte: anche tra i ragazzi circolanoopinioni dure, c’è chi considera gli scioperi e le manifestazioni come “una perdita di tempo”, “un weekend allungato”, “un modo per uscire di casa senza impegni reali”.
E allora la domanda che sorge, soprattutto rivolta ai giovani, è se questa protesta serva davvero, se abbia un senso oggi. Se manifestare significa qualcosa di concreto oppure solo testimonianza di malessere, sfogo estetico, spettacolo. Alcuni giovani ci credono: pensano che fermare una città per un giorno possa far sentire una voce, provocare riflessioni, far capire che certe scelte contano davvero. Altri invece sono convinti che chi vuole cambiare le cose dovrebbe impegnarsi ogni giorno, non solo in piazza: agire nel quotidiano, con piccoli gesti, informarsi, votare, partecipare in modo costante, perché per loro lo sciopero appare una parentesi, non una soluzione.
In ogni caso, il 28 novembre ha portato sotto i riflettori una divisione generazionale e sociale: tra chi crede nella protesta e nelle manifestazioni come strumenti di cambiamento, e chi le considera un intralcio, un fastidio, un atto simbolico senza sostanza. Una frattura non nuova, che emerge ogni volta che una città decide di fermarsi per urlare un dissenso.
Resta la speranza - per chi crede - che non sia questo l’ennesimo sciopero fine a sé stesso. Che non si fermi tutto con i cortei, le bandiere e gli slogan. Ma che in quei giorni nasca una consapevolezza diffusa, che la protesta non sia solo rumore, ma motore di discussione, di cambiamento, di partecipazione concreta. Perché se la sfida è cambiare un paese, allora serve molto di più di un giorno in piazza. Ma bisogna iniziare da qualcuno, da qualche voce. E il 28 novembre a Genova ce ne sono state tante.














