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Sanità | 13 giugno 2019, 14:00

“È la nuova lotta al cancro: allunga la vita, ma ancora si muore”, la ricercatrice in immunoterapia a Genova Silvia Pesce

Con i nuovi farmaci la vita dei pazienti oncologici si è allungata e ne è migliorata la qualità. Intervista alla ricercatrice dell'Università di Genova Silvia Pesce

“È la nuova lotta al cancro: allunga la vita, ma ancora si muore”, la ricercatrice in immunoterapia a Genova Silvia Pesce

È la nuova frontiera nella lotta contro il cancro e segna il passaggio a terapie mirate a combattere specifici target molecolari responsabili dell’insorgere dei tumori. Si tratta dell’immunoterapia oncologica, di cui si occupa Silvia Pesce, laureata in Biotecnologie mediche, ricercatrice dell’Università di Genova presso il Laboratorio di Immunologia Molecolare del Dipartimento di medicina sperimentale (Dimes), studiando le cellule killer del cancro, in particolare del tumore al polmone, del carcinoma ovarico e della leucemia pediatrica. Un lavoro d’equipe, reso possibile anche grazie ai finanziamenti di Airc e Fondazione Veronesi.

Immunoterapia: di che cosa si tratta, in parole semplici?

Si tratta di un approccio terapeutico diverso da quelli classici cui siamo abituati ad associare la cura per la lotta ai tumori, ossia la chemioterapia, la radioterapia e le operazioni chirurgiche; è un valido supporto, ma non una la sostituzione a queste terapie classiche. Con l’immunoterapia, però, cambia completamente la mentalità con cui affrontiamo la lotta al cancro: se prima l’idea era quella che fossimo noi a uccidere le cellule tumorali, agendo con sostanze tossiche, che vanno a uccidere le cellule tumorali, ma con conseguenze sul nostro fisico – come la classica caduta dei capelli e l’indebolimento generale – con l’immunoterapia, invece, l’idea è quella di restituire la capacità di uccidere il tumore a cellule che fanno già parte del nostro organismo, all’interno del nostro sistema immunitario, e che l’evoluzione ci ha donato: abbiamo già dentro di noi dei killer che riconoscono ciè che è patologico e va eliminato.

Perché allora sviluppiamo il tumore se abbiamo già le armi per contrastarlo?

Purtroppo il tumore spesso è in grado di evadere dalle nostre difese e sopprimerle. Con l’immunoterapia si vuol contrastare il giogo che il tumore ha sul sistema immunitario, ridando alle cellule la capacità che dovrebbero avere di ucciderlo. Chiaramente ci sono molte tipologie di approcci immunoterapeutici.

Quali sono i tipi di tumore contro cui è efficace?

Il melanoma, il tumore al polmone (nsclc), al rene, i tumori del testa-collo e il linfoma di Hodgkin. Questi sono i tumori per i quali si ha qualche certezza in più di guarigione, ma dire che sono ormai sconfitti, è falso: purtroppo ancora le persone muoiono, anche perché i protocolli al momento sono in fase di evoluzione e spesso non si può accedere subito all’immunoterapia e non sempre questa funziona in modo uguale in tutti i pazienti, quindi uno degli obiettivi è capire il perché.

Perché su alcuni tumori l'immunoterapia è efficace e su altri no? E perché, con la stessa malattia, alcuni pazienti trovano benefici e altri no? 

Purtroppo non è chiaro. Per esempio, nella lotta contro il tumore al polmone, io mi occupo soprattutto di studiare la molecola PD-1, che quando è espressa sui nostri linfociti, se riconosce la sua controparte sulle cellule tumorali, innesca all’interno delle nostre cellule che dovrebbero difenderci e uccidere il tumore, un segnale negativo, per cui le cellule si bloccano e non fanno niente. Inizialmente e in parte ancora adesso alcuni pensano che l’efficacia della terapia anti PD-1, che è una delle più note, dipenda dall’espressione o meno della controparte di PD-1, che si chiama PDL1 e PDL2, delle cellule tumorali del singolo paziente. Per cui se un paziente esprime tanto PDL1 e PDL2, forse l’immunoterapia anti PD1 sarà più efficace su questo che su un altro paziente che non esprime queste molecole. Immunoterapia anti PD-1 significa che diamo un farmaco che contiene una molecola che blocca l’interazione tra PD1 e PDL: ma senza PDL può non funzionare. Oggi infatti alcuni protocolli prevedono dei test dell’analisi dell’espressione del PDL: in base all’esito un paziente può fare o meno l’immunoterapia con anti PD-1. Anche se in realtà ci sono scienziati che dicono che apparentemente funziona anche quando le cellule tumorali non hanno una così evidente espressione di PDL; è uno studio “in progress”, con una risposta che sta per arrivare, perché sono tantissimi i laboratori dediti a questo tipo di studi. Anche perché è di grandissimo interesse: questi protocolli ormai fanno parte della clinica, quindi si tratta di farmaci usati, costosi, e c’è tutto l’interesse di capire come poterli usare in modo efficace, evitando di farlo su pazienti per i quali si sa a priori che non avranno effetti. Tengo a precisare che i miei studi sul PD-1 sono possibili grazie a un’equipe, alla Professoressa Emanuela Marcenaro, a Marco Greppi, e a quello che è stato il lavoro del direttore della mia sezione, che purtroppo non c’è più, Alessandro Moretta e ai finanziamenti di Airc e Fondazione Veronesi.

Cosa indicano i dati?

Per quanto riguarda il trattamento in seconda linea, dopo cicli della classica chemioterapia, di pazienti affetti da tumore polmonare non a piccole cellule con farmaci capaci di bloccare il checkpoint inibitorio PD-1, il farmaco Nivolumab ha dato una sopravvivenza globale mediana (OS) di 9.2 contro 6 mesi della chemioterapia classica e una sopravvivenza libera da progressione (PFS) di 3.5 contro 2.8 mesi. Un altro farmaco, Atezolizumab, ha dato un OS del 13.8 vs 9.6 mesi della chemioterapia. Ci sono già dati clinici sull’uso di immunoterapia volta a sbloccare il checkpoint inibitorio PD-1 già in prima linea. In questi casi ad esempio un farmaco chiamato Pembrolizumab ha dato un OS del 30 contro 14 mesi della chemioterapia e una PFS do 10.3 contro 6. Non stiamo parlando di guarigioni, ma di allungare la vita concedendo anche una qualità differente. Le posso assicurare che per il tipo di patologia si tratta di dati incredibili.

Sarà il genoma ad aiutare a curare in modo personalizzato i tumori?

L’idea che ogni paziente abbia bisogno di un trattamento diverso è vera, l’analisi del genoma potrebbe aiutarci in questo, ma non è solo quella, nel senso che oggi la tecnologia è talmente avanzata che ci permette di analizzare il genoma, ma anche il proteoma, cioè la produzione di proteine. Ormai si parla di medicina personalizzata, ma questo si potrà realizzare pienamente nel momento in cui avremo test rapidi ed economici da realizzare, perché dovendo analizzare ogni singolo paziente attraverso analisi che, rispetto a quelle del sangue, sono più particolari, bisogna avere la possibilità di farlo a livello ospedaliero, in modo rapido e accessibile a tutti. Comunque la strada probabilmente è quella.

 

Medea Garrone

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