La solitudine, quel fronte mare ricorrente per un isolamento ricercato, la sensualità, il dark ma anche il sociale, la lettura delle contraddizioni del nostro paese, la passione per il noir. Fabio Giovinazzo, regista e autore di una ricca filmografia “orgogliosamente” indipendente ha ricevuto investitura e riconoscimenti all’estero e ottime recensioni dalla critica; un’esperienza, quella dell’artista genovese, che apre a nuove riflessioni sul cinema indipendente dalle nostre parti.
Così, la nostra esplorazione parte dalla prima opera di Giovinazzo ovvero Kinek ìrod ezt?, un intimo e personale tentativo di realizzare un film-sogno dedicato alla figura di Edoardo Sanguineti, coniugando elementi sperimentali di montaggio a interventi immaginati su quelle parole che oggi il poeta avrebbe chiamato in causa per descrivere la vita quotidiana. Già qui emergeva una lettura “altra” capace di far rivivere qualcuno capace di dire “la sua” qui ed oggi, forse per rinfrancare dalla banalità volgare del cinema massificato e massificante.
E poi c’è il mare. Un elemento presente nella parte conclusiva delle due opere successive: Monologo di Palinuro e L’arte del Fauno. Una risoluzione esistenziale e spirituale?
Beh, in Monologo di Palinuro il mare è davanti a una casa di riposo messa al servizio per la gente di mare a Camogli. E’ ricordo di un mondo che non c’è più, vi è fievole e leggera nostalgia nel mio racconto cinematografico. Ne L’arte del Fauno è scelta consapevole di ritiro dal mondo, una volta che di esso si sono esplorate le pieghe più profonde, praticando l’arte e arrivando perfino alla vita di espedienti. Il mare come porto, tramonto di sale e ferraglia.
Il bene e il male hanno un dialogo serrato nelle sue opere e sfumano l’uno nell’altro senza contraddizioni. In quale opera questo aspetto emerge con più forza?
Direi 12 cm di tacco. Qui, per il feroce omicidio di un attore senza nome, le indagini toccano a una detective che si presenta come un personaggio sempre più strambo e sexy. Nella parte finale, soprattutto, emerge con forza un perverso sposalizio che lega non pochi personaggi surreali, tra cui lo stesso attore ucciso che fuma e canta, l'assassino omosessuale che balla un tango appassionato con la detective e una creatura maligna che indossa una maschera da coniglio.
Quale opera ritiene essere più elegante e somigliante a una poesia?
Direi ‘L’anima nel ventre’, un poema costruito attraverso l'elaborazione mentale e generatrice delle immagini. La messa in scena è inconsueta, l'ispirazione è fonte legata alle poesie di Claudio Pozzani, poeta blues che danza sulla pagina. È attrazione verso tutto quello che rimane nascosto: il dissezionamento, la complessità della materia, la proporzione. L'anima nel ventre è un film che cerca di far muovere la poesia sopra un'omogeneità inconscia tra le varie componenti, generando di conseguenza una paradossale dimensione spaziale verso l'esteriorità. La luminosità in corsa verso il buio: è il piacere che nutre il mistero.
In due suoi lavori, vi è un ben specifico riferimento territoriale a Genova, la sua città natale. Ma si mette in luce anche la capacità di fare commistione di generi.
Certo, ne Il ponte della vergogna, docufilm sulla strage del ponte Morandi e in Ultimo spettacolo- Il Cinema Nazionale a Genova, sì, me lo ricordo. Nel primo faccio coesistere in maniera sperimentale il tipico linguaggio da documentario con la videoarte: la storia prende forma e si sviluppa senza trovare incoerenze tra gli stili ma facendoli sopravvivere, ognuno con il suo micromondo. Per la docu-serie sul cinema Nazionale di Molassana la mia arte è ancora nella sua capacità di fare denuncia sociale, ponendo al centro dell’opera l’abbandono, nel mezzo del quartiere, di un cinema che per le persone aveva un altissimo valore simbolico. Ad oggi, so che quell’azione artistico-sociale ha sortito un intervento e quello spazio di conseguenza tornerà a vivere. Ciò mi rende orgoglioso e soddisfatto.
Come vive la religiosità e la natura mistica chi fa cinema indipendente come lei?
Scardinando le certezze. Per esempio, Il mio nome è Gesù è un mio film antiretorico sul tema, che applica la violenza frontale della rappresentazione, senza pietà anche verso quel genere umano che mette in scena. Quindi l'estetica viaggia con l'etica in modo subdolo, passandola al tritacarne con maniacale senso di viva soddisfazione: al supermercato dell'immagine i prodotti sono fatti cadere a semplice fonte di cose dozzinali, ma qui la merce veste al contrario. Permeato da un atteggiamento distruttivo con sfacciataggine, il sentimento religioso è quello di chi si sente abbandonato, di un'umanità grottesca e blasfema che sente un Dio che non abita più qui.
E temi decisamente forti come la libertà, la scoperta del corpo e l’adolescenza con Veleno Biondo.
Si tratta di una fiaba dark su quell'indefinibile struggimento che incornicia l'età adolescenziale in un'atmosfera di soliloquio onirico e dove la natura drammatica degli eventi finisce per cedere alle lusinghe della macchinazione fiabesca.
Una seducente ninfetta che - nella sofisticazione allusiva di un banale e tragico spazio familiare equiparato ad un mondo folle, ambiguo e inafferabile - si muove tra bene e male non si sa fino a qual grado consapevole.
Infine, la sua ultima fatica è un thriller girato al cimitero di Staglieno.
Lady Cobra è un dramma che sposa un forte senso di alienazione, l’enigmatico ritratto di una donna - interpretata dalla bravissima attrice Nicoletta Tanghéri - che cade senza respiro nell’abisso della solitudine. Affari sporchi, colpi di pistola e vendetta sullo sfondo di un paesaggio storico che apre al fumetto con soffio ancestrale. Attualmente in fase di completamento, il piano di distribuzione di Lady Cobra prevede i più importanti festival cinematografici, le sale e le migliori piattaforme attive nel settore.