“Non può esserci alcuna equivalenza tra chi ha lottato per la libertà e chi ha ucciso”.
Lo ripete con voce ferma e sguardo lucido Giordano Bruschi, nato nel 1925 e conosciuto da tutti come il partigiano Giotto. Siamo al cimitero monumentale di Staglieno, nel campo 13, dove riposano i caduti della Resistenza. Qui ha appuntamento con gli studenti della classe 2ª G della scuola D’Azeglio dell’Istituto Comprensivo Molassana - Prato, venuti ad ascoltare la storia raccontata da chi l’ha vissuta. Giotto è il nome di battaglia che un compagno gli diede molti anni fa, un nome che ancora oggi porta con orgoglio, come si porta una bandiera, un testimone, una promessa. E proprio come allora, continua a lottare con la parola, con la memoria, con una dedizione incrollabile a ricordare il prezzo della libertà, conquistata con sangue, sudore, coraggio. Un prezzo che nessuno deve dimenticare.
“A essere divisivo è il fascismo, non la festa del 25 aprile - racconta appassionato -. Nel 1935 Mussolini ha dato inizio a una lunga scia di guerre: Etiopia, Spagna, Albania, Francia, Inghilterra, Belgio, Olanda, Jugoslavia, Russia, Stati Uniti… Undici paesi in guerra per colpa sua. Oggi si dice, giustamente, che gli aggressori vanno condannati. E Mussolini è stato uno dei più feroci. Le guerre del fascismo hanno causato 250.000 morti in Italia, e ci sono stati 50.000 partigiani uccisi. Per questo non possono esserci equivalenze: noi antifascisti abbiamo combattuto per l’uguaglianza e per un Paese libero. I carnefici che hanno torturato e ucciso questi ragazzi – i cui nomi sono incisi nelle lapidi qui a Staglieno – non possono essere paragonati a loro”. Ed è proprio tra queste lapidi dai nomi sbiaditi che il partigiano Giotto vuole lasciare ancora il segno, spendendo parole ai giovani per ricordare le persone che hanno perso la vita e sono sepolte in questo luogo: “Il messaggio più importante per le nuove generazioni è quello di lottare per la libertà. Non basta celebrarne il valore: bisogna anche agire, come hanno fatto i partigiani che qui, nel cimitero di Staglieno, hanno dato la vita per essa. Sono profondamente commosso, anche perché nel 2016 ho scritto un libro su questo luogo, pur essendo già in età avanzata. Ho sentito il dovere di tramandare la memoria di ciò che accadde tra il 1943 e il 1945. Quale luogo migliore, se non il campo partigiano, per ricordare tutto questo? Nei miei studi e nelle mie ricerche, ho imparato a riconoscere uno per uno i partigiani più importanti della nostra città. Questo è il campo 13, il campo partigiano, perché qui riposano gli eroi della Resistenza genovese: i miei amici, i miei compagni, qui sono sepolti anche coloro che furono fucilati durante le stragi fasciste. Non si è trattato, come oggi qualcuno vuole far credere, di una semplice guerra civile tra italiani. Da una parte c’erano i carnefici, dall’altra le vittime. E non si possono equiparare vittime e carnefici”.
Uno degli appuntamenti attesi per la giornata è l’incontro con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, a Genova per poche ore per celebrazioni del 25 aprile: “Se avrò l’occasione di parlargli, gli ricorderò l'importanza dell'impegno. Io ho 99 anni oggi, per la precisione 99 anni, 7 mesi e 3 giorni, e forse, con rispetto, posso permettermi di dare un consiglio a chi è più giovane di me. Il messaggio che voglio trasmettere è che la lotta per la libertà non finisce mai. Abbiamo ottenuto molto: una Costituzione repubblicana fondata sulla Resistenza. Ma non è ancora pienamente applicata. L’articolo 1 dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, ma il lavoro oggi non è né rispettato, né ben retribuito, né sicuro. L’articolo 3 parla di uguaglianza, ma questa è ancora lontana: ci sono i ricchi che sfruttano e i poveri che soffrono. L’articolo 11 afferma che "l’Italia ripudia la guerra", un’espressione fortissima, voluta da Giuseppe Dossetti. Eppure la pace è ancora fragile. Ci sono poi articoli fondamentali sul diritto alla salute, alla sanità, al paesaggio, allo sciopero. Dirò al Presidente che, come abbiamo fatto noi partigiani, anche oggi bisogna continuare a lottare, per dare piena attuazione alla Costituzione”.
Alle classi in visita, ma anche a tutti gli studenti che hanno la fortuna di ascoltare i suoi racconti, il partigiano Giotto illustra le storie di giovani uomini e donne che sono riusciti, con le loro piccole e grandi azioni, a fare la differenza. Tra di loro, quella di Stefanina Moro “una ragazza di soli 16 anni, staffetta partigiana. La sua arma era semplice e pacifica: la bicicletta. Trasportava ordini del CLN ai vari reparti della città, con un ruolo fondamentale, come tutte le donne-staffetta. I fascisti e i nazisti volevano catturarle, convinti che, essendo donne, sarebbero state più deboli e avrebbero tradito. Stefanina, purtroppo, fu catturata e torturata in modo disumano: prima con l’acqua salata, poi col fuoco ai piedi, infine le strapparono le unghie con il ferro. Fu ridotta in condizioni così gravi che, nell’ottobre del 1944, gli stessi nazisti decisero di trasferirla lontano da Genova, per nascondere ciò che le avevano fatto alla Casa dello Studente. La mandarono all’ospedale di Asti. Qui il destino ha scritto una pagina drammatica. Il padre di Stefanina, Ottavio Moro, era partigiano nelle Langhe, combattente nelle Brigate Garibaldine. Padre e figlia non sapevano di trovarsi vicini, eppure morirono entrambi per la libertà: lei, il 9 ottobre 1944; lui, in combattimento nell’aprile del 1945, vicino ad Asti. Sembrava che le loro vite fossero separate per sempre, ma dopo la Liberazione fu creato questo campo partigiano e l’ANPI fece una scelta dolcissima: qui, dove ogni tomba è dedicata a un singolo partigiano, ce n’è una sola che accoglie due corpi insieme, quello di Stefanina e di suo padre Ottavio. Le loro vite si sono ricongiunte in questo cimitero, e nel calendario antifascista che abbiamo realizzato con il Circolo Sertoli, abbiamo raccontato la loro storia: il 9 ottobre è dedicato a Stefanina, il 16 aprile al padre Ottavio”.
Insieme ai ragazzi, rapiti dai racconti, vuole raggiungere la lapide di Giovanni Giacalone, uno straccivendolo arrivato a Genova da Castelvetrano, in Sicilia. Aveva poco più di quarant’anni, e percorreva la Val Bisagno comprando e vendendo abiti usati: sotto alla pila di indumenti, però, trasportava qualcosa di prezioso e pericoloso allo stesso tempo: le armi della Resistenza. “Fu arrestato il 20 novembre 1943 in via Bobbio, venne torturato alla Casa dello Studente ma non tradì. Venne fucilato nel gennaio del 1944 insieme ad altri sette partigiani, fu uno uno degli eccidi più brutali e significativi della lotta di Liberazione”. Su questa lapide, Giotto e gli studenti lasciano dei garofani rossi, in segno di memoria e gratitudine, per celebrarne il coraggio e la dignità. Non per retorica, ma per giustizia.