Guerre, cambiamenti climatici, disordini politici, migrazioni: questi i temi dei 144 scatti della prestigiosa World Press Photo Exhibition, visitabile presso la Loggia degli Abati di Palazzo Ducale dal 30 aprile al 24 giugno 2025. L'apertura al pubblico è fissata per mercoledì 30 aprile alle ore 15.
Un appuntamento internazionale che per la prima volta è ospitato a Genova, e che offre uno sguardo sul mondo grazie agli obiettivi di 3778 fotografi provenienti da 141 paesi, pubblicate dalle principali testate internazionali, tra cui New York Times, Washington Post, Der Spiegel, Time, e agenzie come France Presse, Associated Presse, Reuters, Tass. Organizzata da Cime, Ambassador Italia della World Press Photo Foundation di Amsterdam, in collaborazione con Fondazione Palazzo Ducale Genova. Le 144 fotografie rappresentano le migliori candidate alla 68ª edizione del Concorso World Press Photo, valutate da una giuria indipendente presieduta dall’italiana Lucy Conticello, direttrice della fotografia per M, il magazine di Le Monde.
Il Concorso di quest’anno ha adottato un approccio regionale, suddividendo le candidature in sei aree geografiche. Le categorie di concorso sono tre: Singole, Reportage (tra 4 e 10 fotografie), e Progetti a lungo termine (tra 24 e 30 fotografie).
Il titolo di World Press Photo of the Year 2025 è stato assegnato alla palestinese Samar Abu Elouf per un’immagine pubblicata dal The New York Times, che ritrae un bambino mutilato da un attacco israeliano a Gaza. Tra i finalisti per la Foto dell’Anno figurano lo statunitense John Moore con "Attraversamento notturno", che documenta l'immigrazione clandestina negli Stati Uniti per Getty Images, e il peruviano-messicano Masuk Nolte con "Siccità in Amazzonia", realizzato per Panos Piciture, Bertha Foundation, che illustra le conseguenze della crisi climatica.
“Quest’anno abbiamo ricevuto oltre 60.000 fotografie, inviate da circa 4.000 fotoreporter da tutto il mondo. Potete immaginare quanto sia complesso selezionare le immagini più significative - racconta Babette Warendorf, direttrice delle esposizioni di World Press Photo -. In mostra ci sono i lavori di 42 finalisti, selezionati tra sei diverse macroregioni del mondo. Questo permette ai visitatori di avere uno sguardo ampio e approfondito su ciò che è accaduto nel mondo nel corso dell’ultimo anno: storie grandi e piccole, conflitti noti e meno noti, reportage sportivi, ritratti dell’interazione tra esseri umani e animali, e molto altro. La giuria ha poi selezionato tre grandi finalisti e ha scelto la World Press Photo of the Year. Queste immagini raccontano i temi più urgenti del nostro presente. La prima è una foto molto toccante, scattata in Amazzonia, che documenta l’impatto drammatico della siccità. Si vede un giovane ragazzo in un paesaggio ormai prosciugato: l’acqua è scomparsa e la vita della comunità locale è stata profondamente colpita. È un’immagine potente che parla non solo dell’Amazzonia, ma di una crisi globale, quella climatica, che ci riguarda tutti. La seconda foto, di John Moore, ritrae un gruppo di migranti cinesi al confine tra Messico e Stati Uniti. In un momento in cui la migrazione viene spesso strumentalizzata politicamente, questa immagine ci restituisce un volto umano, intimo, del fenomeno. Ci ricorda che dietro i numeri ci sono storie personali, emozioni, vite. Infine, abbiamo la vincitrice assoluta: la World Press Photo of the Year. È stata scattata da Samar Abu Elouf, fotoreporter palestinese, ed è la prima volta nella storia del concorso che una donna palestinese riceve questo riconoscimento. Nei 70 anni di storia di World Press Photo, soltanto sei donne hanno vinto questo premio. La sua fotografia ritrae Mahmoud al-Ziq, un bambino di 9 anni che ha perso entrambe le braccia a causa di un bombardamento israeliano a Gaza City. La giuria ha ritenuto questa immagine al tempo stesso tenera e potentissima. Si vede il volto dolce del bambino, e solo dopo ci si accorge dell’assenza delle braccia. È una fotografia che colpisce profondamente, perché racconta la guerra attraverso le sue vittime più fragili: i bambini. Gaza, oggi, è la parte del mondo con il più alto numero di bambini amputati in rapporto alla popolazione. Samar Abu Elouf, che attualmente vive in Qatar, continua il suo lavoro con l’obiettivo di scattare – come dice lei stessa – la fotografia che potrà, un giorno, contribuire a fermare la guerra. Per lei, questo impegno è fondamentale”.
“Da tempo avevamo in mente di scegliere Genova come città ideale per ospitare la mostra - spiega Vito Cramarossa, direttore di CIME e ambasciatore italiano per World Press Photo -. Siamo riusciti a inserirla nel calendario del tour mondiale di World Press Photo, che tocca oltre 45 Paesi, ma che in Italia non ha una presenza così capillare. Genova, in particolare, non aveva mai ospitato questa esposizione. Per fortuna, l’intesa con Palazzo Ducale ci ha permesso di organizzare la mostra in tempi relativamente rapidi – per gli standard di un evento di questa portata – e il risultato è stato davvero soddisfacente. Genova è una grande città, molto viva dal punto di vista culturale, in particolare per quanto riguarda la fotografia. Palazzo Ducale è un punto di riferimento centrale per la cultura cittadina, quindi ci è sembrato il luogo ideale per accogliere un’esposizione come questa”.
“World Press Photo è una mostra attualissima - continua a spiegare -: è a tutti gli effetti una lezione di storia contemporanea, un estratto visivo dell’anno 2024. Propone 144 scatti che io definisco sempre “finestre sul mondo”: immagini che ci permettono di guardare lontano, di conoscere culture, luoghi e realtà spesso molto distanti dalla nostra quotidianità. Visitare questa mostra ci offre un’occasione per ripensare il nostro rapporto con il mondo. I macrotemi affrontati sono tanti, e le tematiche sono estremamente attuali, ma anche ricorrenti nella storia dell’uomo: si parla di cambiamenti climatici, crisi di vario genere – ambientali, sociali, politiche – che generano trasformazioni continue, spesso interconnesse. Temi caldissimi come il cambiamento climatico, i conflitti e le migrazioni sono al centro della narrazione fotografica proposta quest’anno. La mostra offre anche uno sguardo globale: i fotoreporter provengono da tutti i continenti e il concorso è strutturato in sei macroregioni, ognuna con una propria giuria locale, in modo da garantire una valutazione coerente con la sensibilità e il contesto culturale di ciascuna area. I progetti selezionati vengono poi portati ad Amsterdam, dove una giuria internazionale decreta i vincitori finali, tra cui la foto dell’anno. World Press Photo non è solo una mostra fotografica: è anche un presidio a difesa della libertà di stampa. Vuole puntare i riflettori su storie che spesso passano sotto silenzio, anche se i temi di fondo sono noti perché riguardano fenomeni globali. Le fotografie, però, ci permettono di entrare in empatia con le persone ritratte, ci portano dentro l’intimità delle famiglie, dei protagonisti, e ci aiutano a riflettere. Allo stesso tempo, questa mostra è molto “viva”: riesce a dilatare il tempo. Visitandola, ci si può immergere nelle immagini come si farebbe con un libro, vivendole in maniera intensa. È per tutti questi motivi che consiglio vivamente di visitarla: resterà esposta a Palazzo Ducale dal 30 aprile al 24 giugno e rappresenta anche la prima tappa del tour italiano di World Press Photo dopo Amsterdam”.
Cinzia Canneri è l’unica fotografa italiana selezionata per questa edizione di World Press Photo, grazie al progetto con cui ha documentato le vite di alcune donne che sono fuggite dal regime repressivo in Eritrea e dal conflitto in Etiopia. Ciò che la rende davvero felice non è tanto il fatto di rappresentare il proprio Paese, quanto il poter essere lì insieme a tanti colleghi e colleghe brave provenienti da ogni parte del mondo, tutti impegnati nel raccontare storie spesso difficili da rendere visibili. Una soddisfazione, certo, ma soprattutto un’opportunità di condivisione e confronto.
Per Canneri, “fare una fotografia significa raccontare una storia. Stare dietro l’obiettivo è entrare in un modo privilegiato, particolare, nella relazione con l’altro. È come fare una selezione di vista che diventa anche una selezione di relazione, di intimità. La speranza, ogni volta, è lasciare una documentazione, una memoria. Lo scatto, in sé, è solo un attimo, ma quell’attimo nasce da una storia lunga: una storia con la persona fotografata, con ciò che si vuole raccontare, ma anche con se stessi come fotografo o fotografa. Non è mai qualcosa di casuale: è frutto di una relazione”.
Capita, e non di rado, di decidere di non scattare: “Anzi, succede quasi sempre. Prima dello scatto viene la relazione, il tempo condiviso, lo stare con l’altro. Si vedono momenti che dentro di sé si sa quanto sarebbero forti in una foto, ma si sceglie di non fermarli, sapendo che torneranno, magari in altre forme, in altri luoghi, in altri volti. Lo scatto è l’ultima cosa che arriva, mai la prima”. La fotografia, per la fotografa, non è il tentativo di catturare qualcosa che altrimenti sfuggirebbe, ma il frutto di un legame, di uno scambio. “Anche nella fase successiva, quella dell’editing, si fanno scelte importanti: a volte si tolgono foto che si amano, che si considerano belle e importanti, per costruire meglio una storia. Ma quelle immagini restano, dentro, perché fanno parte di un percorso. La foto che più si vorrebbe fare, per sua natura, è quella che ancora non c’è. La fotografia, infatti, non ha mai una meta definitiva: non esiste la foto assoluta, e proprio per questo esiste sempre il desiderio di andare avanti, di cercare, di scoprire ancora”. Tra le immagini più difficili ci sono sicuramente molte di quelle selezionate per questa mostra. “Scatti che nascono da relazioni profonde, ma anche da un prendersi cura dell’altro. In particolare, nel lavoro esposto quest’anno, uno degli aspetti più complessi è stato quello di proteggere l’identità di molte donne, perché per loro esiste ancora uno stigma molto forte. La sfida più grande è stata trovare la giusta via per raccontare con rispetto la loro storia, dando forma a un’immagine che fosse al tempo stesso espressione e tutela”.
La World Press Photo Exhibition non è solo un concorso, ma una celebrazione delle storie che le immagini riescono a raccontare, superando confini culturali e linguistici. La World Press Photo Foundation, organizzazione indipendente e senza scopo di lucro di Amsterdam, si dedica a sostenere il fotogiornalismo di alta qualità e a promuovere un'informazione visiva libera per una più profonda comprensione del mondo.
La mostra sarà visitabile da domenica a venerdì dalle 10 alle 19 e il sabato dalle 10 alle 20. La biglietteria chiude 30 minuti prima. I biglietti hanno un costo intero di € 12,00 e ridotto di € 10,00 per diverse categorie, tra cui gruppi, docenti, giornalisti iscritti all'albo in visita personale, guide turistiche abilitate, dipendenti Iren, Amici di Palazzo Ducale e Over 65. Sono previste ulteriori riduzioni (€ 8,00) per i possessori di PALAZZO DUCALE CARD e gli Under 27, e riduzioni (€ 4,00) per gli Under 18 e i gruppi scolastici. L'ingresso è gratuito per i bambini sotto i 6 anni, gli accompagnatori di persone con disabilità, gli accompagnatori scolastici e i giornalisti accreditati in servizio.
Per informazioni è possibile visitare i siti www.worldpressphotogenova.it e www.palazzoducale.genova.it



























