‘La musica che ci gira intorno’ è il format de ‘La Voce di Genova’ dedicato alla scoperta e alla valorizzazione della scena musicale ligure, con un focus su artisti locali, eventi, nuovi talenti e le tradizioni sonore della nostra regione. Ogni settimana la musica sarà protagonista, in ogni sua forma e da ogni punto di vista. Qui troverai interviste agli artisti, le nuove uscite discografiche, gli appuntamenti per vedere concerti ed esibizioni live e spazio a chi, con la musica, ci lavora: dai produttori ai fonici, dai musicisti ai gestori di locali, teatri e spazi dove è possibile far sentire la propria voce.
Musicista, produttore, polistrumentista: Francesco Bacci, in arte Lowtopic, è uno dei genovesi più noti nel mondo della scena musicale genovese. Dopo essersi lasciato alle spalle l’esperienza con gli Ex-Otago, ha iniziato la sua avventura nel mondo dell’elettronica che è ancora oggi al centro della sua attività artistica.
Alle 19,30 di sabato 12 luglio, in Terrazza Coeclerici, in occasione della nuova edizione di Electropark, il festival genovese dedicato alla musica elettronica e alla sperimentazione, l’artista presenterà una performance inedita, realizzata con il visual artist Nicola Villa, in compagnia del regista e attore Marco Pasquinucci.

Il punto di partenza? Il regista americano Jack Smith, figura iconica e controversa della cultura underground, che attraversò anche Genova durante la sua vita. Da lì un lavoro unico, pensato per esistere solo in quel contesto.
“'Jack Smith: Real Artists Don't Have Teeth’ È una performance che nasce con e per Electropark. Mai realizzata prima, e mai più in questa forma - racconta -. Abbiamo lavorato a partire dall’immaginario di Jack Smith: le sue immagini, le sue parole, la sua estetica. L’idea era capire che tipo di suono potesse raccontare questo personaggio, e quindi inventare una musica che fosse parte della sua narrazione. Un’esplorazione vera e propria”.
Il connubio tra elettronica e immagine è un elemento ricorrente nel lavoro del musicista genovese, e non è un caso: “La musica elettronica che amo è quasi sempre senza parole, oppure contiene frammenti vocali, tagli, echi. Per questo si lega benissimo a un mondo visivo, onirico, magico. Mi affascina quando la musica diventa parola delle immagini e ne amplia, ne distorce il significato. E viceversa, quando un’immagine riesce a dare un senso nuovo a un suono. È un confine che si sposta, che si estende”.
Ma come nasce una performance del genere? Qual è il processo creativo? “Dipende, ovviamente, dal carattere del lavoro. Ma soprattutto da cosa si sceglie come trigger, come innesco creativo. Può essere una parola, una nota, un’immagine, una melodia: tutto può diventare germe di un’idea. La creazione dal nulla, in musica, non esiste. E quando si lavora con i video si decide se è il video a guidare la musica, o viceversa. In questo caso, l’input è stato video: ho guardato i film di Jack Smith, ho studiato le sue figure, e ho provato a capire quali suoni potessero alterarne la percezione, dargli un’altra vita. I suoi film non erano muti, avevano già un suono, ma di natura completamente diversa da quella che ho immaginato”.
Accanto a questo lavoro site-specific, Lowtopic ha da poco pubblicato anche un nuovo EP, intitolato Places. Un progetto profondamente personale, ma ancora una volta senza parole. Solo suoni. “Qualcuno mi ha chiesto: ma se non ci sono parole, in che senso racconta qualcosa di te? Eppure per me è chiarissimo. Come l’olfatto si lega alla memoria, così fa anche il suono. Ogni traccia è un luogo, ma anche una persona, un momento. Ho scelto di raccontare posti che mi fanno stare bene, che mi hanno accompagnato in un periodo di solitudine”. Una solitudine che ha diverse radici: “Il mio studio è vicino a casa di mio nonno. Fino a poco tempo fa pranzavo con lui quasi tutti i giorni, finché non è mancato. Quei pranzi, tutto a un tratto, sono diventati silenzi. A questo si è aggiunto anche il vuoto che a volte provo nella mia città: Genova è bellissima, ma manca di una scena contemporanea, manca un museo d’arte contemporanea, manca il rischio. Così, in Places, ho cercato di abitare quei vuoti con i ricordi, con i volti delle persone che amo. La mia compagna, i miei figli, gli amici, gli altri artisti con cui condivido il palco. Ogni traccia è una piccola storia, mascherata nei titoli, ma vera nei suoni”.

Il disco è anche un passo avanti verso una maggiore definizione della sua identità musicale: “Avevo pubblicato un album nel 2024, About Everything Happened in the Meantime. Ma riascoltandolo, mi sembrava che avesse lasciato delle zone in ombra. Places nasce proprio per esplorare quei territori: approfondire, snocciolare il linguaggio, trovare una timbrica che mi somigliasse di più. È un lavoro di ricerca, ma anche di consapevolezza”. Ma i suoi cari si sono riconosciuti in questi suoni? “Spero di sì. Alcuni sì, altri forse no. La bellezza della musica strumentale è proprio questa: ti permette di attribuire significati anche inconsci. Mio figlio Giovanni, che ha due anni e mezzo, riconosce subito quei brani tra mille e li chiede, li vuole ascoltare. È una cosa che mi rende orgoglioso e anche un po’ preoccupato: non vorrei creare dei mostri (ride). Ma sì, sapere che qualcuno trova casa nei miei suoni mi fa pensare di essere riuscito a dire qualcosa, anche senza dire nulla”.
Il tema della memoria ritorna forte: “Ho sempre avuto paura di dimenticare. Non in senso patologico, ma proprio come ansia di non ricordare abbastanza le cose importanti. Di farne tante, troppe, e poi non riuscire a fissarle. Ecco perché legare un suono a un ricordo per me significa renderlo indelebile”. Tra le tracce di Places e la performance per Electropark c’è un filo rosso: il bisogno di raccontare, non con le parole, ma con vibrazioni, frequenze, immagini in movimento. In questo processo anche Genova diventa protagonista, con le sue mancanze e le sue potenzialità. “Genova non si prende rischi. E manca una scena musicale veramente contemporanea. Ma ci sono delle realtà virtuose che rispetto profondamente: Electropark ovviamente, ma anche Boem — il festival di Bogliasco che organizzo con un gruppo di persone splendide — poi Palazzo Bronzo, la residenza di Jacopo Benassi a Palazzo Ducale, le rassegne dei Luzzati... Sento che c’è fame di queste cose. E anche chi ha lasciato Genova lo percepisce”.
Un riconoscimento importante arriva proprio dal pubblico di Boem: “Sappiamo per certo che più della metà del nostro pubblico non conosce gli artisti che salgono sul palco. Ma viene lo stesso. Si fida di noi, viene per scoprire. Ed è questo il senso della contemporaneità: uscire dalla comfort zone. Se non c’è scoperta, tutto muore. L’usato sicuro va bene, è dignitoso, ma non aggiunge nulla alla nostra esperienza”. Non manca un accenno critico al sistema musicale italiano: “La logica del ‘quanta gente porti’ nei live è un’aberrazione. Non ha senso, né artisticamente né imprenditorialmente. La scoperta deve essere tutelata, incentivata. Se non si creano spazi per l’inedito, tutto si blocca”.
Eppure, proprio in una città dove “succede poco”, fare qualcosa può fare la differenza: “A Genova, un live di musica elettronica può davvero diventare un evento importante per chi abita qui. A Berlino sarei uno dei tanti, qui è qualcosa di speciale. Certo, vorrei anche essere a Berlino, ricevere stimoli, essere immerso nella contemporaneità. Ma sono anche molto orgoglioso di poter fare questo lavoro nella mia città”.
Infine, un’ultima riflessione sul tempo presente, sull’esperienza diretta, sul vivere davvero le cose: “Dopo il Covid ci siamo resi conto che l’internet non basta. Le cose bisogna viverle mentre accadono. La contemporaneità non si legge in una notizia: si abita, si respira, si sbaglia mentre succede. Solo così ha veramente senso”.














