Nel mare magnum della musica italiana, c’è un’onda che parte da distante e ti raggiunge con forza e gentilezza, facendo vacillare certezze e convinzioni.
È l’onda di Giulia Mei, cantautrice palermitana, una delle voci più dirompenti del panorama italiano, capace di trasformare l’ispirazione di Euterpe in un atto politico, poetico e rivoluzionario.
Il 25 luglio, a Villa Bombrini, sarà lei la protagonista assoluta del Lilith Festival, la rassegna genovese giunta alla sua quattordicesima edizione, che da anni accende i riflettori sulle voci femminili più autentiche e fuori dagli schemi.
Un ritorno, quello di Mei, che per la prima volta sarà headliner dell’appuntamento corniglianese: “Ho suonato diverse volte a Genova e conosco bene il festival, le persone che lo organizzano e chi lavora a questo bellissimo progetto. È sempre bello tornare e lo dico sempre che Genova è un’altra Palermo, la mia seconda Palermo. Mi ricorda tantissimo la mia città e ogni volta è un colpo al cuore”.
Partecipare al Lilith Festival per Mei è un riconoscimento prestigioso: “Da quando è nato, ha aiutato molti progetti a emergere. Essere headliner è una cosa molto bella”.
Giulia Mei non si limita a scrivere canzoni. Nei suoi testi e nelle sue melodie nascono mondi in cui ogni persona trova spazi e sfumature. Un cantautorato che certo sa coinvolgere ma che sa essere terapia, denuncia, poesia e ribellione.
L’esempio più evidente è ‘Bandiera’, brano che è già diventato un inno generazionale per chi rifiuta di uniformarsi, rompendo schemi musicali e preconcetti interiori: “Ho capito che la musica deve uscire dagli schemi. Questo brano ha cambiato il mio modo di scrivere. Con ‘Bandiera’ ho acquisito la consapevolezza che si può avere il coraggio di rompere un cliché e ho spezzato le catene che avevo a livello musicale. Come se dovessi scrivere rispettando delle regole”.
Per Mei, Bandiera è stata una rivelazione: “La gente ha voglia di ascoltare, di parlare, di partecipare. La storia che il pubblico è sordo non è vera. Il pubblico è molto reattivo, soprattutto nell’ambito del cantautorato. I contenuti stanno tornando in voga, la musica ha il potere e la possibilità di arrivare alle persone; le persone hanno voglia di ricercare nella musica i temi di riflessione e attualità che in qualche modo, paradossalmente, i mass media non raccontano nella maniera corretta”.
L’attenzione al sociale torna diverse volte nei suoi dischi. Si incontra in ‘Diventeremo Adulti’, si ritrova prepotente in ‘Io della musica non ci ho capito niente’, l’ultimo lavoro in studio. Ma tutto accade vivendo: “Ci sono molti temi che sento di voler affrontare, ma le cose succedono e ‘Bandiera’ ne è un esempio, Vivendo quel disagio, l’impossibilità di tornare a casa di sera, è iniziata una riflessione che si è ricomposta in un pezzo. Prevedere le cose a tavolino è difficile ma mi viene in mente che mi piacerebbe riuscire a parlare meglio d’amore, che è uno dei temi più difficili da trattare”.
Il mondo attorno catalizza l’attenzione: “Voglio raccontarlo, soprattutto per come cambia. Parlare dell’individualismo che schiaccia tutti e non ci permette di riconoscerci”.
Parlare di temi e canzoni offre l’occasione di aprire uno spaccato che sempre più appare come un’urgenza del nostro tempo: la salute mentale. Parlare di terapia e sentirlo fare in maniera del tutto normale da chi, come Giulia, si sta facendo portavoce di una generazione, è ciò che di più bello si possa ascoltare. Mei lo racconta con spontaneità, parlando proprio della sua voglia di continuare a scrivere, di raccontare ciò che osserva: “C’è tanto ancora da raccontare, voglio farlo. I miei occhi si guardano attorno ma c’è ancora tanto da capire sulla mia identità, sulla mia vita. Sono andata in terapia quindi sicuramente gli spunti ci saranno”.
Non è raro, ascoltando i dischi di Mei, di imbattersi in canzoni in cui spicca la componente dialettale. Un’altra piccola grande rivoluzione culturale che ha proprio in Giulia, in Anna Castiglia e ne La Nina tre delle voci più ascoltate degli ultimi anni. Sono proprio le loro contaminazioni a sovvertire gerarchie linguistiche oramai superate e alle nuove generazioni (e non solo) questo sembra piacere particolarmente.
“Il dialetto non deve essere sempre associato a un aspetto della società deplorevole - racconta Mei -. Per molti anni il dialetto ha continuato a essere snobbato, evitato. Ci sono genitori che insistono nell’educare i figli a parlare italiano e non dialetto, come se quello fosse un modo di esprimersi associato a un immaginario non auspicabile. Il dialetto invece racconta la nostra storia. Il palermitano nemmeno lo chiamo dialetto, per me è una lingua che sa raccontare con una saggezza incredibile ma anche con essenzialità. Il palermitano è carnale, reale, autentico, dolce e crudo allo stesso tempo. Io sono anche questo e chi mi ascolta, prende tutto il pacchetto, pure col palermitano”.
“Mi auguro che la mia sia una carriera - prosegue - e che sia sempre come in questo momento, in giro per l’Italia, come sta capitando con questo tour bellissimo. Sto scoprendo tanta provincia ma soprattutto sto incontrando persone, trovando nuovi stimoli e mi auguro di poter portare la musica ovunque. Più di tutto, mi auguro che la scintilla che mi pota a scrivere non si spenga mai”.
Riassumere tutto questo in tre parole non è certo facile ma Mei ci prova lo stesso: “libertà, che è la più banale, però è giusta per me; divergere, e l'ultima probabilmente ribelle, libera, divergente e ribelle”.
Sperimentare senza paura, contaminare e mescolare per creare sempre quell’alchimia che nasce dalla sensibilità e dalla conoscenza: “La vita cambia ed è bello raccontarla”.
Così, il palco diventa manifesto.















