A Genova il dibattito sull’introduzione dell’educazione all’affettività nelle scuole dell’infanzia ha acceso polemiche, preoccupazioni e prese di posizione spesso lontane dal merito della questione. Per questo abbiamo intervistato Camilla Sciandra, pedagogista, insegnante e referente ligure dell’Associazione Educatori Pedagogisti Italiani (APEI), per approfondire il senso e la funzione di un intervento educativo che, nelle intenzioni del Comune, dovrebbe partire da gennaio in quattro scuole pilota.
Secondo Sciandra, il punto da cui partire parte da un’analisi dei bisogni sociali: “I bambini e i ragazzi hanno sempre più difficoltà nella gestione delle emozioni, nel riconoscere cosa provano gli altri e nel dare un significato funzionale alle proprie reazioni”. Una fragilità che nasce da più fattori: la diminuzione del tempo di qualità in famiglia, l’esposizione costante a modelli aggressivi nei media, la velocità dei ritmi di vita e una crescente solitudine educativa.
“Le nuove generazioni sembrano arrivare a scuola con una cassetta degli attrezzi un po’ vuota”, osserva. “Lavorare sull’affettività significa fornire strumenti, competenze, linguaggi. È un investimento di prevenzione sulla relazione, sulla gestione del conflitto, sulla capacità di rispettare i confini propri e altrui”.
Molte delle reazioni critiche sui social si sono concentrate sul rischio di introdurre forme di “teoria gender” o educazione sessuale ai bambini della materna. Un fraintendimento che, per Sciandra, rivela la distanza tra percezione e realtà. “Qui si parla di educazione all’affettività e alle relazioni, non di sessualità. Le parole sono importanti. Nei progetti destinati ai più piccoli si lavora su concetti semplici ma fondamentali: come chiedere un abbraccio, come capire se l’altro lo vuole, come gestire la frustrazione quando un gioco piace a due bambini, come stare in un conflitto senza aggredire. Questo è il cuore dell’intervento”.
Il problema della lettura ideologica, sostiene, nasce spesso dalla difficoltà degli adulti nel gestire temi che percepiscono come delicati. “Molti genitori sono spaventati perché non si sentono preparati: temono che la scuola introduca idee o concetti che loro non saprebbero affrontare con i figli. È una forma di insicurezza, più che un reale dissenso sui contenuti”.
Sciandra insiste su un punto: l’educazione affettiva non può essere solo un affare scolastico, ma un processo comunitario. “I genitori hanno bisogno di strumenti e di una rete. Oggi sono molto soli e molto confusi: ricevono input da social, libri, esperti, ma mancano contesti in cui confrontarsi davvero. Per questo, come dice il collega Daniele Novara, servirebbe una scuola per genitori, o comunque percorsi dedicati”. Le famiglie, infatti, rappresentano un tassello centrale del linguaggio educativo. “Un tempo le regole erano condivise: c’era un’idea comune di giusto e sbagliato. Oggi in una classe convivono dieci modelli educativi diversi. È chiaro che qualsiasi intervento scolastico può essere interpretato in modi opposti. Creare un patto educativo chiaro e condiviso è fondamentale”.
Nel dialogo emergono anche riflessioni sui casi di cronaca che coinvolgono adolescenti. “Oggi molti ragazzi faticano a prevedere le conseguenze delle proprie azioni. Questo dipende anche dal fatto che, troppo spesso, i genitori intervengono per riparare o giustificare tutto: dal brutto voto alla lite. In questo modo si impedisce ai figli di sviluppare problem solving, responsabilità, capacità progettuale”.
L’assenza di sperimentazione del limite, aggiunge Sciandra, rischia di tradursi in comportamenti impulsivi. E si lega anche a un altro tema: l’attaccamento. “Alcuni adolescenti cercano negli altri quella sicurezza che non trovano a casa. Pensiamo a casi recenti: quando una relazione diventa l’unica fonte di valore personale, la perdita dell’altro può essere vissuta come un crollo identitario”.
Sul piano culturale, Sciandra rileva un cortocircuito: “Viviamo in un’epoca in cui si giudicano culture che limitano la libertà delle donne, ma allo stesso tempo alcune reazioni politiche e sociali rifiutano qualsiasi proposta che aiuti i ragazzi a interrogarsi su stereotipi di genere. È un controsenso”. Un altro nodo cruciale riguarda la socialità. “I bambini giocano molto meno fuori casa rispetto al passato. Si praticano più sport individuali che di squadra, e il tempo libero passa attraverso schermi che non insegnano a stare con gli altri. La scuola diventa il principale luogo di apprendimento delle regole sociali”. Da qui il valore dell’intervento nelle scuole dell’infanzia: “È l’età in cui si formano le prime competenze relazionali. Non a caso la scelta di iniziare dagli 0-6 anni è strategica”.
Pur apprezzando la scelta del Comune, Sciandra sottolinea che l’educazione affettiva servirebbe anche, e soprattutto, tra i 10 e i 18 anni. “È una fascia d’età attraversata da stereotipi, gelosie normalizzate, dipendenze affettive. Molte ragazze raccontano di rinunciare a uscire perché ‘il fidanzato non vuole’. Molti ragazzi credono che mostrare fragilità li renda meno maschili”. Secondo diverse rilevazioni, continua, “tra i 16 e i 18 anni molti pensano che più un partner è geloso, più ‘tiene a te’. È una convinzione profondamente disfunzionale, terreno fertile per relazioni tossiche”.
Tra i segnali culturali che preoccupano Sciandra c’è anche l’esasperazione dell’immagine. “È positivo che i giovani abbiano un rapporto più aperto con il benessere psicologico, ma troppo spesso la cura è rivolta solo all’estetica. I ragazzi vivono sotto una pressione estetica enorme, si vestono tutti uguali, ricercano identità attraverso la seduzione. Servirebbe un equilibrio tra cura del corpo e cura dell’animo”.
APEI ha sostenuto anche a livello nazionale la necessità di una legge sull’educazione all’affettività. “Siamo stati al Senato per ribadire che si tratta di un’urgenza. La Liguria, con l’iniziativa promossa dal Comune di Genova, può essere un laboratorio importante. Ma servono ore dedicate, professionisti qualificati, un patto educativo chiaro con le famiglie”. Per Sciandra, il punto di arrivo è “aiutare i bambini e i ragazzi a costruire relazioni sane, rispettose, non vincolanti. Dare loro un linguaggio emotivo, sociale, umano. Restituire centralità alla relazione come competenza. È su questo che si gioca la società che avremo tra vent’anni”.














