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Cultura | 03 dicembre 2019, 19:49

Anna Della Rosa a Genova: "L'Angelo di Kobane è ogni donna che lotta per la libertà"

“L’Angelo di Kobane” è in scena fino a domenica 15 dicembre alla Sala Mercato. Intervista all'interprete

Foto di Patrizia Lanna

Foto di Patrizia Lanna

Immaginate una ragazza adolescente che vive con la famiglia contadina a  Ventimiglia, mentre ascolta Beyoncé con l’Ipod e sogna di diventare avvocato. E poi pensate che un giorno arrivi l’invasore a infrangere ogni speranza; ecco “Se non avete mai sentito parlare di Kobane tranquilli, non la conoscono in tanti. È un’insipida cittadina di confine dove di solito non succedeva mai niente. Fate conto Ventimiglia, in Siria”, ci dice Henry Naylor, autore pluripremiato dell’”Angelo di Kobane” (“Angel” in versione originale, ultima pièce della trilogia “Arabian Nightmares”).

L’Angelo è Rehana, appunto, simbolo della resistenza femminile curda, interpretato da una straordinaria quanto intensa Anna Della Rosa, che dimostra non solo di avere grandi doti, oltre che attoriali, di cantante e ballerina, ma anche una sensibilità, tutta femminile, che le ha permesso di calarsi in un ruolo davvero difficile, che è quello dell’eroina decapitata nel 2014 dalle milizie dell’Isis. Lo spettacolo, un monologo ininterrotto di un’ora e un quarto, in cui Della Rosa (diretta da Simone Toni) parla, canta, grida, piange e uccide, tiene gli spettatori sempre con gli occhi puntati su di sé e sulla scenografia (di Christian Zurita), essenziale cornice a una narrazione che si fa insieme flusso di coscienza e dialogo a due col padre, eternamente presente pur nella sua assenza, attraverso immagini – che fin dall’inizio preconizzano i tragici eventi - che si fanno vivide nella mente e nelle memoria, accompagnando chi guarda fino alla fine. “L’Angelo di Kobane” è in scena fino a domenica 15 dicembre alla Sala Mercato.

 

Chi è davvero Rehana? Anche lei, come l’autore, Henry Naylor, si è documentata sulla sua vita? Non per tutti sarebbe realmente esistita o non così come la propaganda curda la vuole fare apparire.

Rehana è l’emblema di ragazze che sono esistite e che esistono, e non importa se è quel volto sorridente, che poi abbiamo visto decapitato dall’Isis, sia il suo o meno: ciò che conta è quello che rappresenta. Mi sono documentata sui Curdi e in particolare sulle donne, perché nella loro tradizione si arruolano come volontarie. Per cui direi che Rehana è tantissime donne e ragazze, che hanno dato la vita. E siccome si tratta di storia di recente attualità, perché nell’opera si parla dell’assedio di Kobane del 2014, abbiamo a disposizione molti documenti e documentari in cui cantano, danzano, si riuniscono per parlare di diritti maschili e femminili e di democrazia: sono ragazze di 17, 20 e 22 anni con la mimetica, le sciarpe tradizionali e le scarpe da ginnastica, e il fatto che studino, che abbiano una famiglia, vivano degli amori e ascoltino la musica con l’Ipod come noi, ce le rende molto crudelmente vicine. Mentre mi preparavo per questo spettacolo, a Milano, ho avuto anche la fortuna di poter assistere a una rassegna di film d’essai sui Curdi e sulla Siria devastata dalla repressione di Assad e dall’avanzata dell’Isis.

 

Si tratta, oggi più che mai, di un’opera quanto mai attuale, visti i recenti avvenimenti: lo scorso ottobre la Turchia ha attaccato i curdi siriani, non più sostenuti dagli Usa.

Infatti è uscita da poco la notizia di Hevrin Khalaf, segretaria del Partito Futuro Siriano, che durante l’offensiva turca è caduta in un agguato: anche lei era una curda che si batteva per la democrazia e i diritti delle donne, era il volto dei Curdi, arabi e cristiani. I curdi sono un po’ eccezionali perché hanno fondato il Kurdistan, che purtroppo non è riconosciuto a livello internazionale, ma che è esempio di democrazia in cui tutti hanno parità di diritti; sono musulmani con una visione laica della religione, che nulla ha a che vedere con la feroce strumentalizzazione che ne fa l’Isis, che dietro all’Islam costruisce la propria propaganda di morte.

Come si è preparata per calarsi nei panni di Rehana?

Noi occidentali, noi italiani e io, Anna, milanese, che esperienza ho di stupro, di tortura, di una famiglia sterminata e di un popolo che non può parlare né scrivere nella propria lingua? Nessuna, quindi a un dramma come questo ci si deve avvicinare con molto pudore; non possiamo immedesimarci nel senso più banale del termine, ma ci possiamo avvicinare in molti modi: leggendo, guardando e riflettendo, perché solo così siamo aiutati nella comprensione.

Cosa significa per lei interpretarla?

È un onore per me poter raccontare questa storia, perché è importante per me, che ho potuto approfondire e studiare la questione curda, che conoscevo pochissimo; questo compensa la difficoltà dell’interpretazione, perché mi rendo conto che la storia arriva alle persone e che sono i momenti in cui il teatro è sentito davvero come vicino.

Direi che c’è un coprotagonista invisibile, ma sempre presente sulla scena: il padre di Rehana, per cui siete sempre in due. Sbaglio?

Sono felice di questo, ed è merito sicuramente della regia. Tra me e Toni c’è stata una collaborazione molto bella, fatta di grande sintonia, e fruttifera, e per lui era molto importante, come si vede nel testo, il rapporto padre-figlia, perché la storia non è politica in modo ideologico, ma calata negli affetti; quindi anche una donna, una ragazza, un uomo e un padre ci si ritrovano, perché i punti di vista sono “caldi”, e al centro c’è l’eredità spirituale che il padre lascia alla figlia, che vuol dire comprendere che cos’è la sacralità degli alberi, che vuol dire seminare frutti, rispetto, vita, collaborazione. Il rapporto tra un padre burbero, ma buono, e una figlia adolescente e ribelle è molto concreto, umano e condivisibile; e che sia lui, che non è solo pragmatico, a trasmetterle gli insegnamenti che le serviranno per salvarsi, è molto significativo, così come è stata un’intuizione molto felice dell’autore il fatto che sia il padre, e non la madre, ad affermare che in questo Paese le donne saranno come gli uomini.

L’autore ha voluto raccontare “quanto i nostri sogni possano essere distrutti dalle ambizioni di qualcun altro. E di come una donna che credeva nel pacifismo e nella giustizia, si sia convertita alle armi e alla violenza”. Eppure quello che si percepisce ancora di più è il legame inscindibile con gli insegnamenti famigliari, tanto che alla fine si definisce “eterna contadina”, e non eterno avvocato, lanciando, nonostante tutto, un messaggio anche positivo e di rinascita.

Le interpretazioni vanno tutte bene, in arte non si sbaglia mai, e anche secondo me c’è un esito positivo - anche se finisce ammazzata - che è il comprendere il valore del seminare, contro il nero, la morte, il bruciato dell’Isis: “nero carbonizzato niente”. Quando il mio personaggio comprende il messaggio d’amore del padre, allora dice che la propria morte non è vana e, a quel punto, è orgogliosa di essere la figlia del contadino. Certamente lei muore quando inizia a uccidere: qui concordo con l’autore, perché Rehana sicuramente avrebbe preferito non conoscere l’eredità del padre in modo così violento e sarebbe stato meglio realizzare il sogno d’avvocato, per cui penso che convivano il punto di vista di Naylor e quello che dici tu. Lei non diventa invasata per la violenza: è come una macchina, spara, ma è disperata, e infatti dice al padre di aver perso se stessa, e questo è il suo dramma: aver conosciuto l’annientamento di sé dopo aver annientato l’altro. Questa è la sua bellezza, perché si può diventare invasati della violenza dopo averla subita, ma lei non lo ha fato e penso sia molto femminile: lei è portatrice di vita e costretta a essere portatrice di morte.

Questo monologo richiede un impegno notevole, anche fisico.

Sì, richiede grande allenamento di fiato e concentrazione; quando l’abbiamo portato per la prima volta in scena un anno e mezzo fa alla rassegna estiva del Teatro Nazionale, ho provato per un mese durante il quale mi sono dovuta allenare, come si fa nelle gare sportive; inoltre faccio riscaldamento con esercizi di yoga e altri ancora.All’inizio si paragona Kobane a Ventimiglia: è un adattamento del traduttore Sciaccaluga, del regista Toni, o è così anche nel testo originale “Angel”?

L’autore nel copione suggerisce, in base al Paese in cui ci si trova, di indicare un luogo di confine, in modo che sia concreto e di riferimento per la gente del posto. In verità Ventimiglia, che non è propriamente un paese, è stata anche teatro di eventi tragici, a proposito di migranti, quindi non è un luogo così tranquillo, ma è vicina. Anche i riferimenti alla televisione, come a Star Trek e Beyoncé, sono appropriati, perché la Siria è molto vicina a noi, per cui i riferimenti sono occidentali per farci capire come i Curdi siano simili a noi nella loro quotidianità, o almeno tentino di esserlo, vista la situazione.

Medea Garrone

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