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Attualità | 03 aprile 2020, 18:53

Coronavirus, allarme Centro Antiviolenza Mascherona: "Oltre alle mascherine continuano a diminuire le chiamate"

Sono calate del 30% le richieste d'aiuto al centro antiviolenza di Genova. Questa settimana sono state solo 7. Ma quello che manca sono anche le mascherine

Coronavirus, allarme Centro Antiviolenza Mascherona: "Oltre alle mascherine continuano a diminuire le chiamate"

Continuano a diminuire le chiamate al Centro Antiviolenza Mascherona di Genova. Da quando è iniziato il coprifuoco, di settimana in settimana le donne che cercano aiuto sono sempre meno: “Solo sette per questa settimana, quattordici durante la precedente e prima ancora undici – spiega la responsabile Manuela Caccioni - Abbiamo una riduzione del 30% per ora”. E negli altri centri d’Italia non va meglio, tanto che “facciamo riunioni assidue con D.i.re – Donne in rete contro la violenza, di cui facciamo parte, e si parla anche di un calo del 50 e 60 per cento”. Naturalmente perché le donne, costrette in casa con compagni che le sorvegliano costantemente, non riescono a rivolgersi ai centri.

Anzi, per coloro che avevano finalmente trovato il coraggio di dire basta e andare via di casa, tutto si è bloccato: “chi aveva iniziato a gennaio o febbraio a rivedere la relazione, superando i dubbi e decidendosi a intraprendere questo percorso, al momento l’abbiamo persa, perché queste persone hanno troppa difficoltà a parlare con noi e le assistenti sociali”, a differenza, invece, delle donne che hanno una separazione in atto e che fortunatamente “riescono a fare i colloqui, anche con le psicologhe e le avvocate”.

A queste situazioni, però si aggiungono quelle al limite, di chi, prima della quarantena, viveva un conflitto domestico, e che in questo periodo rischia di trasformarsi in vera e propria violenza: “una donna che prima tollerava uno schiaffo o una spinta ogni tanto, ora non regge più e ci ha detto che vuole andare via”. E chissà quante coppie saranno in queste condizioni senza che si sappia.

Senza dimenticare, poi, che molte coppie conflittuali hanno dei figli, dei minori che assistono a scene cui prima non assistevano o che vedevano solo in parte, e per i quali – almeno quelli già seguiti dai servizi sociali - “c’è una grande rete che continua a lavorare intorno a loro”, perché attualmente sono monitorati da casa dagli assistenti sociali, che fanno i colloqui con i genitori, e grazie agli educatori, invece di fare i compiti nei centri socio-educativi, li fanno tramite Skype o altre piattaforme. “Tutti ci stiamo inventando un lavoro di sostegno, anche per alleggerire la situazione domestica, perché laddove il clima famigliare è difficile, dover stare anche dietro ai figli e ai compiti diventa davvero molto pesante”.

Come pesante è tornata ad essere la condizione di chi, scappata dal marito violento, adesso si ritrova di nuovo chiusa in casa, sebbene quella protetta, senza poter uscire. “Questa situazione per loro è un riattivatore traumatico: avevano riconquistato la libertà e il lavoro – spiega Caccioni – e adesso non possono più fare niente”, perché molte di loro svolgevano lavori domestici presso le famiglie o avevano appena iniziato un corso di cucito o stavano per diventare OSS. Senza contare che “non possono nemmeno vedere le famiglie d’origine, con cui si erano appena ricongiunte”.

Una situazione difficile, quindi, dal punto di vista emotivo, sia per chi non è ancora riuscita a entrare in una casa rifugio, sia per chi c’è dentro e, per sicurezza, non ne può uscire. Ma difficile anche dal punto di vista pratico ed economico: “abbiamo poche mascherine, quelle di cui disponiamo le abbiamo acquistate in farmacie di fiducia, mentre altre, non a norma, le stanno cucendo le volontarie o le donne stesse, ma abbiamo dovuto chiederne un rifornimento: l’assessora Cavo ha detto che si farsi portavoce della nostra necessità, perché servono alle operatrici per non contagiare le donne presenti nelle case e loro stesse”.

A questo, poi, si deve aggiungere, come denunciato in questi giorni da Antonella Veltri, presidente di D.i.re – Donne in rete contro la violenza, il fatto che dei 30 milioni del Piano nazionale antiviolenza previsti per l’anno 2019, 20 milioni sono stati destinati all’attività ordinaria di centri antiviolenza e case rifugio e 10 milioni a ‘specifiche attività collaterali per il contrasto della violenza’, ora dirottati sull’emergenza Covid19 attraverso le Regioni.

Ovviamente non sono sufficienti, perché “per l’emergenza dovevano essere destinati soldi aggiuntivi, anche perché a noi del Centro Mascherona, che è il più grande della regione, ne arrivano solo 28mila”. Inoltre era stato chiesto alle Prefetture di attivare delle strutture d’emergenza “perché non possiamo fare entrare nelle case rifugio donne che potrebbero essere positive al coronavirus e rischiare il contagio di tutte”, ma questa richiesta è caduta nel vuoto.

Nonostante tutto, però, il Centro antiviolenza Mascherona, continua a operare gratuitamente, sebbene a distanza (https://centroantiviolenzamascherona.it/), perché “è fondamentale esserci, anche se solo al telefono o davanti allo schermo del computer – conclude la responsabile -. Non possiamo più accogliere le donne che hanno bisogno di aiuto con un abbraccio, offrendo loro un caffè, un fazzoletto o una spalla su cui piangere, ma, anche se manca la parte più umana del nostro lavoro, ci siamo sempre”.

Medea Garrone

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