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Sport | 07 dicembre 2024, 07:57

Lo sport che amiamo - Eraldo Pizzo, una vita per la pallanuoto: “L’amore della gente ci ha sempre sostenuti. Ai giovani raccomando serietà e studio”

Dall’inaspettato primo scudetto con la Pro Recco vinto a Trieste nel ’59, all’oro olimpico con il Settebello, fino al titolo vinto a quarantatré anni, all’ultima giornata. Il 'Caimano' ripercorre la sua carriera tra aneddoti e ricordi

Prosegue questo sabato, e andrà avanti per tutti i sabati successivi, ‘Lo Sport che amiamo’, una rubrica dedicata a personaggi e storie di sport della nostra città e della nostra regione. Ci piace raccontare quel che c’è oltre il risultato sportivo: il sudore, la fatica, il sacrificio, il duro allenamento, l’impegno, le rinunce, lo spirito del gruppo. Tanti valori che vogliamo portare avanti e mettere in luce con quello che sappiamo fare meglio: comunicandoli. Comunicarli significa amplificarli, ed ecco perché lo sport può diventare, sempre di più, ‘Lo Sport che amiamo’. Ci accompagna in questo percorso un giovane di belle speranze: Federico Traverso, laureato in Scienze della Comunicazione. L'ospite di oggi è Eraldo Pizzo, il ‘Caimano’, tra i pallanuotisti più forti della storia dello sport italiano

Eraldo Pizzo, il suo rapporto con l’acqua comincia presto, sia con la pallanuoto che con il nuoto. Cosa ricorda degli inizi?

“Ho cominciato a tredici anni con la pallanuoto, ma avevo imparato a nuotare solamente ad undici anni. Qui a Recco all’interno della diga stavamo in acqua anche otto o nove ore al giorno a giocare, per puro divertimento. Il nuoto invece è stata una piccola parentesi. A sedici anni un dirigente del Recco, vedendomi giocare a pallanuoto, mi disse che avrei potuto fare i campionati di nuoto. La società non aveva i fondi per mandarmi, così un ex giocatore, Bertin Priano, si offrì di aiutarmi e pagarmi le trasferte. Una ai campionati invernali a Milano e l’altra agli assoluti di Terni, dove vinsi i 400 e gli 800. A quel tempo, quindi, nel 1954, ero il sedicenne più forte d’Italia nel nuoto. E avrei potuto proseguire con il nuoto, però a Recco, dove esisteva solo la pallanuoto, era complicato: senza la piscina non avrei potuto imparare le partenze o le virate, ad esempio. L’ultima gara di nuoto che feci fu contro me stesso: nel 1960, prima delle Olimpiadi di Roma, c’era in palio una medaglia d’oro per il ligure che fosse in grado di scendere sotto il muro del minuto. Feci un tentativo e ci riuscii, e quella fu per me l’ultima esperienza con il nuoto. Dopodiché, mi sono sempre dedicato alla pallanuoto”. 

Quando ha cominciato con la Pro Recco, i segni dei bombardamenti su Recco durante la Seconda guerra mondiale erano ancora evidenti. I successi di quella squadra hanno rappresentato anche una rinascita per Recco?

“Certamente. Il secondo anno in cui abbiamo fatto le finali, nel 1959 a Trieste, dopo quelle di Torino del ’58 in cui uscimmo sconfitti, vincemmo e l’accoglienza che ci riservò Recco al ritorno fu incredibile. Eravamo sei ragazzi di Recco più un ragazzo di Genova dal Genoa Nuoto. L’età media era di vent’anni: i due più “vecchi” avevano ventidue anni, io e Cevasco ventuno, il portiere diciannove e altri due ne avevano diciotto. L’allenatore era mio fratello Piero, che di anni ne aveva venticinque e oggi sarebbe considerato quasi un bambino. Fu incredibile: dei ragazzi di Recco che vincono inaspettatamente il titolo. Eravamo andati a Trieste senza nessuna responsabilità di dover vincere, eravamo già felici di essere in finale per il secondo anno di fila, e invece partita dopo partita costruimmo una vittoria eccezionale. Al ritorno tutta Recco, non ancora pienamente ricostruita, e la vallata circostante ci accolsero: vedere questi ragazzi che da Recco sono arrivati fino al tetto d’Italia fu per la comunità una vera e propria rinascita. L’amore della gente per quella squadra era grande, e rimase tale anche perché nei successivi quattordici anni vincemmo tredici titoli”. 

Tra tutti gli scudetti conquistati, ne ricorda uno in particolare per le emozioni che le ha dato?

“Quello più importante è stato di certo il primo. Non se lo aspettava nessuno, nemmeno noi giocatori. Non siamo andati là per vincere. Quando uno è ‘programmato’ per la vittoria se la gode a metà. A Trieste la straordinarietà è stata sì la vittoria, ma l’emozione più grande è stato il ritorno a casa. Oppure sapere che da Recco erano partiti dei ragazzi in Vespa per sostenerci per la finale contro i Canottieri Napoli. Con tanto di bandiere della Pro Recco con lo Scudetto cucito sopra ancora prima di giocare. Ai tempi non c’era l’autostrada, quindi potete immaginare cosa significhi andare su in Vespa… Fu davvero incredibile”. 

E invece quello conquistato con il Bogliasco, quando aveva più di quarant’anni, vinto all’ultima giornata proprio contro la sua Pro Recco?

“Devo dire che mi ha dato molta soddisfazione. Ho giocato ventotto campionati di Serie A e non mi era mai capitato di giocarmi un titolo all’ultima giornata contro la diretta concorrente. Quell’anno invece andò proprio così, avevo quarantatré anni, giocavo nel Bogliasco primo in classifica e all’ultima giornata sfidammo il Recco secondo. Non nascondo che quella vittoria mi ha dato molta soddisfazione, proprio perché fui quasi ‘scartato’ dalla Pro Recco perché considerato troppo vecchio. Sono cose che nello sport succedono, e infatti l’anno dopo ho chiuso la carriera con un titolo alla Pro Recco, il mio sedicesimo. Combinazione, proprio contro il Bogliasco”. 


 

Qual era la qualità più grande di quella Pro Recco?

“Tanto stava nell’attaccamento con Recco e nell’affiatamento del gruppo, dato che venivamo tutti da lì. C’era un legame profondo con il paese, la gente ci incitava durante gli allenamenti e ci fermava per strada. Ci sentivamo importanti per loro, e quando vincevamo percepivamo di dare loro indietro qualcosa di bello. Venivano da un periodo triste, buio, era un paese che era stato raso al suolo era si stava ricostruendo. Questo quindi era importante, ma in quella squadra c’erano anche dei bravi giocatori. C’era della qualità, senza non si va da nessuna parte. Anche quelli considerati ‘meno bravi’ erano dei ragazzi impeccabili, intelligenti, che non nutrivano invidie nei confronti dei più forti. Nulla guastava l’armonia di quella squadra. Ognuno faceva il proprio compito. Devo anche dare merito a mio fratello, che purtroppo non c’è più, il quale capì che una squadra fatta di giovani come la nostra se avesse messo le partite sul piano fisico sarebbe stata sovrastata dagli altri giocatori. Ci diceva di muoverci, di non stare mai fermi: se avessimo seguito la pallanuoto di allora e non i consigli di mio fratello, non saremmo arrivati da nessuna parte”.  

Nel 1960 è arrivato anche l’oro Olimpico ai Giochi di Roma. Un traguardo eccezionale, anche considerando che lei aveva solo ventidue anni…

“È stato incredibile, anche in quell’occasione due ragazzi di Recco, io e Franco Lavoratori, hanno ricevuto l’affetto di tutto un paese al ritorno dai Giochi. Anche lì è stato bello vedere la soddisfazione di un paese intero. In quegli anni è arrivata anche la prima Coppa dei Campioni: basta guardare al risultato della Finalissima, 1-0, per capire la tensione di quel match. Nessuna rete nei primi tre tempi, poi nel quarto il gol di Lavoratori che decide la sfida e ci consegna il titolo di campioni d’Europa. Quella è stata la ciliegina che ci ha confermati al vertice della pallanuoto, perché oltre all’Italia abbiamo vinto anche in Europa. Davvero bellissimo”. 

Dopo il ritiro non ha abbandonato la pallanuoto, anzi, ci è rimasto dentro fino a sei mesi fa. In che modo ha messo al servizio dei più giovani la sua esperienza? Che cosa ha cercato di insegnare loro?

“La cosa che cerco di insegnare, quando parlo ancora oggi con i ragazzi, è la serietà. Se fai uno sport, devi farlo seriamente. Devono ricordarsi che le società investono su di loro, quindi devono metterci il massimo dell’impegno. Inoltre, dico loro di non abbandonare gli studi. Lo raccomando a tutti, soprattutto a chi fa pallanuoto perché è uno sport che spesso non ti permette di guadagnare per sistemarti tutta la vita. La carriera degli sportivi dura, al massimo, quindici o vent’anni, e spesso si ritrovano a trentacinque anni con ancora tutta la vita davanti senza sapere cosa fare. La vita dopo la carriera agonistica deve essere costruita prima. I ragazzi devono capire che lo sport sì, può dare una mano, ma si devono proteggere da soli. Dal punto di vista sportivo, poi, è fondamentale che imparino il rispetto degli avversari e dei compagni, senza prendere in giro i più deboli. Lo sport è bello se lo fai con serietà, come d’altronde il lavoro o tutte le altre cose”. 

Come e quanto è cambiata la pallanuoto che si gioca oggi rispetto a quella che ha vissuto lei? Le piace?

“No, non mi piace. Non c’è divertimento. Prima di tutto è troppo fisica. Poi, a volte, io stesso faccio fatica a comprendere i fischi degli arbitri. Non c’è sorpresa nel gioco di oggi, non c’è fantasia, il pubblico vuole vedere qualcosa che non si aspetta. Tra l’altro, con le nuove regole ridurranno il campo ai 25 metri e il possesso di palla a 25 secondi, un cambiamento che toglie ancora più spazio a imprevedibilità e fantasia. Il tempo per portare il pallone dalla difesa alla zona d’attacco in questo modo è ancora meno, e c’è sempre meno possibilità di costruire un’azione. Io la penso così, magari invece piacerà alla gente, vedremo”. 

Federico Traverso

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