Uvetta, che sia sultanina, pinoli, canditi, farina e lievito tutti amalgamanti per comporre un’amalgama quasi magica da gustare dopo averla cotta in forno.
Il pandolce genovese, spesso chiamato erroneamente panettone genovese, è una delle star delle tavole natalizie e non solo.
Sempre di più, infatti, questa leccornia gastronomica sta diventando un dolce per tutto l’anno capace di riscuotere consensi tra turisti e genovesi in egual misura.
Protagonista di un campionato riservato agli amatori della pasticceria del tutto simile al campionato del pesto, il pandolce oggi viene celebrato a Genova anche tramandando la sua storia secolare che, secondo alcuni, si perde nella leggenda.
Secondo alcuni storici, infatti, le origini del pandolce dovrebbero ricercarsi nell’antica Persia dove veniva preparato un dolce a base di frutta secca e canditi, arrivato a Genova grazie alle rotte commerciali che la Superba aveva.
‘Sbarcato’ nelle cucine genovesi, questo dolce sarebbe stato riproposto diventando il pandolce che tutti conosciamo.
Secondo altri, invece, nella nascita del pandolce ci sarebbe lo zampino del principe Andrea Doria. Il grande ammiraglio, infatti, nel XVI° secolo avrebbe deciso di indire un concorso per creare un dolce simbolo della città.
Quali caratteristiche doveva avere? Doveva essere ricco e nutriente, capace di durare a lungo in modo che anche i marinai, impegnati per diversi mesi lontano da casa, potessero godere della sua bontà.
Trionfò il pandolce, diventando una vera e propria icona che resiste ancora oggi.
Nelle famiglie genovesi, tradizionalmente, il pandolce veniva portato in tavola dalla persona più giovane che lo affidava poi al capofamiglia. Toccava a lui tagliare il dolce e dividerlo per tutti mettendone da parte due fette, una per il primo povero che avrebbe bussato alla porta, e una da conservare per San Biagio, protettore della gola, che la Chiesa celebra il 3 febbraio.
Mentre il pandolce veniva porzionato, veniva recitata questa preghiera
“Vitta lunga con sto’ pan!
Prego a tutti tanta salute,
comme ancheu, anche duman,
affettalu chi assettae,
da mangialu in santa paxe,
co- i figgeu grandi e piccin,
co- i parenti e co- i vexin,
tutti i anni che vegnia’,
cumme spero Dio vurria’
(Trad. Prego per tutti tanta salute,
come oggi, anche domani.
Affettalo mentre sei seduto,
per mangiarlo in santa pace,
con i figli grandi e piccoli,
con i parenti e con i vicini.
Tutti gli anni che verranno,
come spero Dio vorrà).
Qualunque sia la sua storia, il pandolce resta una piccola grande bontà capace di unire le generazioni.














