Un quartiere per i genovesi, perché si possano riappropriare di una parte della città, vivere a stretto contatto con il mare, godere di uno spazio innovativo in ogni suo aspetto.
Il Waterfront di Levante, il chiacchierato progetto firmato dall’archistar Renzo Piano, oggi è una realtà che certamente non manca di essere affascinante: il Palasport ‘riaccordato’ alle nuove costruzioni, caratterizzate dalla predominanza di superfici trasparenti che creano un dialogo continuo con il mare, in cui non mancano alloggi di varie metrature.
Appartamenti quasi tutti venduti, alcuni dei quali, non molti per la verità, già abitati da famiglie. Ma se sono tutti venduti, perché non sono tutti abitati?
Questi appartamenti, in principio pensati come simbolo della rinascita urbana e di appartenenza comunitaria, stanno diventando una fotografia impietosa dell’andamento della città: gli immobili, finiti e perfettamente abitabili vengono acquisti da società e investitori non residenti a Genova, con l’unico scopo di convertirli ad apparenti a uso turistico perfetti per gli affitti brevi.
Per scoprirlo, basta fare una ricerca sulle più note piattaforme di settore: per una notte in uno degli appartamenti del Waterfront la richiesta oscilla tra i 140 e gli oltre 300 euro mentre per un affitto ‘vecchio stile’, la richiesta minima è di 1,400 euro per poco più di quaranta metri quadrati con contratto transitorio.
Canoni di locazione che rendono questi immobili praticamente irraggiungibili.
Come già denunciato in precedenti articoli de La Voce di Genova, la dinamica speculativa non è solo una questione di mercato, ma è un vero e proprio attacco al tessuto sociale della città.
Il Waterfront di Levante, quella nuova costruzione che avrebbe dovuto essere il nuovo volto della città, sta finendo in mano a chi lo sta gestendo solo ed esclusivamente per profitto con un meccanismo che ha un che di spietato: investitori che non comprendono le esigenze dei residenti, acquistano proprietà per trasformarle in residenze temporanee destinate ai turisti, compromettendo il diritto all’abitare.
Il fenomeno degli affitti brevi, alimentato dalla logica della speculazione immobiliare, ha infatti ridotto questi spazi a meri asset finanziari, contribuendo all’escalation dei prezzi e all’esclusione sociale.
La trasformazione dell’area non si ferma qui. La crescente presenza di annunci con tariffe mensili esorbitanti testimonia come il mercato immobiliare genovese sia diventato un’arena di contrattazioni lontana dalla realtà quotidiana dei residenti. Questa situazione, come già affrontato in diversi articoli de La Voce di Genova, sta erodendo il diritto alla città, trasformando quartieri storici in zone di investimento per pochi privilegiati, mentre la comunità locale viene relegata ai margini.
Le conseguenze di questa speculazione sono evidenti: il patrimonio urbano, un tempo al servizio della collettività, rischia di essere completamente mercificato, sacrificando l’identità e la vivibilità della città sull’altare del profitto.
Che cosa fare dunque?
La soluzione non è certamente semplice né immediata.
Un primo passo potrebbe essere quello di aprire un tavolo di confronto dove possano sedere i rappresentanti politici e le istituzioni, assieme alle associazioni di categoria, agli investitori e ai residenti.
Occorre creare un sistema che garantisca il diritto all’abitare e che eviti lo spopolamento di intere aree della città, pronte a tramutarsi in ‘quartieri fantasma’ a uso e consumo meramente turistico.
Parole come gentrificazione e overtourism devono entrare nel vocabolario collettivo per far sì che Genova possa trovare un modello di crescita e sviluppo, anche nel settore turistico, che sia a misura di cittadini e cittadine, che non dimentichi le esigenze di chi visita la città e che non allontani chi nella Superba vuole costruire un business ma in equilibro con il benessere di chi la città la abita ogni giorno.
Se non si discute e si traccia una rotta collettiva, si rischia di avere sempre più ‘casi Waterfront’, aree di appartenenza e comunità che rischiano di diventare l’amaro emblema di una città che, pian piano, viene rubata alla sua stessa gente.