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Attualità | 15 maggio 2025, 15:00

Tutti pronti a spendersi a parole, ma nessuno col portafoglio in mano: Genova ha smesso di credere nel suo calcio

Da troppo tempo le due squadre cittadine non interessano ai tanti imprenditori locali, in una città che vanta quasi cinquantamila abbonati a fronte di nemmeno seicentomila abitanti

Da sinistra: Aldo Spinelli e Riccardo Garrone

Da sinistra: Aldo Spinelli e Riccardo Garrone

Genova è una città unica nel panorama calcistico nazionale: ha poco più di 550 mila abitanti e le due squadre cittadine, insieme, contano circa 47 mila abbonati. Una proporzione inimmaginabile nelle altre grandi piazze d’Italia. Vero è che alcuni dei fedelissimi delle sue squadre arrivano anche da fuori città, ma è altrettanto vero che per le strade di Genova la presenza delle due squadre cittadine (e la loro rivalità) è a dir poco palpabile. Fa parte del tessuto sociale, fa parte della storia e fa parte anche della narrazione cittadina che si sposta dai bar alle strade, dagli uffici alle sale del potere. Tutti si sperticano in parole d’amore per l’una o per l’altra squadra, ma da troppo tempo Genova non mette mano al portafoglio per contribuire alla crescita di Genoa e Sampdoria.

Ad oggi le due squadre cittadine sono di proprietà straniere, tendenza sempre più sviluppata nel calcio italiano e internazionale, ma anche negli anni pre-rivoluzione esterofila le stanze del potere economico del calcio genovese erano fuori città.
In casa Genoa sono passati più di vent’anni. C’è stata prima l’era di Aldo Spinelli, durata dal 1985 al 1997 con la storica partecipazione alla Coppa Uefa nel 1991, e poi il periodo non proprio roseo tra Gianni Scerni (originario di Rapallo) e il veneto Luigi Dalla Costa, con quest’ultimo che poi è arrivato ad avere la totalità delle quote della società in uno dei momenti più bui della storia recente rossoblu. Scerni è uscito di scena nel 2001, sancendo così anche la sparizione dell’imprenditoria genovese dai vertici della società.

La Sampdoria, dal canto suo, ha avuto una lunga tradizione legata al tessuto economico cittadino. Nel 1979 è stata acquistata da Paolo Mantovani che, seppur romano di nascita, ha legato la sua intera vita a Genova. Con lui i blucerchiati hanno vissuto il loro periodo d’oro: Coppa delle Coppe (1990), Scudetto (1991), finale di Coppa dei Campioni (1992). Alla sua morte nel 1993, la squadra è passata nelle mani del figlio Enrico che l’ha guidata fino al 2002. Poi è entrata in scena la famiglia genovese dei Garrone (gruppo ERG) con tanto di partecipazione alla fase preliminare della Champions League nel 2010. Anche qui, alla morte di Riccardo Garrone (2013), la società è passata al figlio Edoardo. Ma, con lui, si chiude anche la lunga parentesi delle proprietà genovesi del Doria. Dopo c’è stato Massimo Ferrero con tutto quello che ne è conseguito. E così, da oltre dieci anni, anche la Sampdoria non ha più avuto a che fare con fondi locali.

Ed è strano in una realtà come Genova, con una notevole concentrazione di fondi privati, grossi gruppi imprenditoriali, nomi di peso. Tutti a spendersi a parole per la causa, nessuno pronto a spendere.
In Italia sono tanti gli esempi di imprenditori locali che hanno fatto la fortuna delle squadre cittadine, dal ‘miracolo’ dei Percassi a Bergamo con l’Atalanta, alla risalita dagli inferi del Napoli targato De Laurentiis, dalla Serie C agli scudetti. Dalla Serie C, appunto. Volendo, si può fare. Da Genova a Bergamo, da Napoli a chissà dove: il calcio può ancora essere un fatto di cuore, oltre che di numeri. Ma serve la volontà. E Genova, quella vera, deve ancora dimostrarla.

Pietro Zampedroni

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