C’è un Natale genovese che non si ritrova più nei menù contemporanei, ma che continua a sopravvivere nella memoria collettiva, nei racconti familiari e nella letteratura dialettale. È il Natale di un tempo, quando le feste rappresentavano una parentesi rara in una quotidianità fatta di lavoro e sacrifici. Proprio per questo, nei giorni di festa, la tavola doveva essere ricca, abbondante, persino eccessiva, almeno per una volta all’anno.
Quel mondo riemerge attraverso il racconto di Franco Bampi, docente di Meccanica razionale all’Università di Genova, studioso del dialetto ligure e presidente de ‘A Compagna OdV, che in una vecchia intervista sul nostro giornale aveva ricostruito il menù tradizionale delle feste genovesi. Un racconto che dialoga idealmente con la poesia Il tondo di Natale di Niccolò Bacigalupo, figura centrale della cultura cittadina e autore di testi teatrali resi celebri da Gilberto Govi.
Il primo piatto del pranzo festivo non lasciava spazio a dubbi. Altro che ravioli: il vero protagonista era il brodo. "Il piatto del giorno di Natale erano i maccheroni in brodo, chiamati anche Natalini", spiega Bampi. Una pasta secca lunga e forata, cotta in un brodo preparato con grande attenzione: tre carni diverse, cappone, manzo e maiale. "Di quest’ultimo si usava soprattutto la salsiccia, che veniva sbriciolata direttamente nel brodo per renderlo più saporito".
I ravioli arrivavano solo in un secondo momento. "C’è l’idea diffusa che facciano parte del pranzo di Natale, ma in realtà erano il piatto di Santo Stefano". La tradizione prevedeva che il brodo del giorno precedente servisse anche come base per il ripieno. Nel pomeriggio, mentre uomini e bambini si dedicavano alla tombola, le donne di casa preparavano i ravioli, facendoli girare e asciugare lentamente.
Più articolato il discorso sui secondi piatti, dove entravano in gioco le possibilità economiche delle famiglie. "Chi poteva permetterselo portava in tavola l’aragosta, considerata una pietanza importante". Centrale era anche il cappon magro, uno dei piatti simbolo della cucina ligure delle feste, ricchissimo e complesso, a base di pesce e verdure. Ma la carne restava una presenza costante, soprattutto quella già utilizzata per il brodo. "Il cappone, una volta tolto dal brodo, diventava un ottimo secondo".
Non mancavano preparazioni oggi quasi scomparse: piatti umidi a base di teste, colli di pollame, fegati e parti molto grasse. "Durante l’anno si mangiava poco e magro, mentre nelle feste la carne doveva abbondare". La bagnetta veniva raccolta con il pane, spesso tostato. Sulle tavole comparivano anche il sanguinaccio, fatto con il sangue di maiale, e il bibin, il tradizionale tacchino arrosto.
Come contorno, una presenza fissa erano le radixe de Ciävai, le radici di Chiavari, meno amare di altre varietà e ritenute utili per alleggerire un pasto così impegnativo.
Il capitolo dolci completava un percorso gastronomico tutt’altro che leggero. "È una cucina che oggi non potremmo più mangiare con quella frequenza", osserva Bampi. Il protagonista assoluto era il pandolce, che doveva essere grande, quasi monumentale, prima ancora che buono. Accanto a lui trovavano spazio i cubeletti, dolci di pasta frolla ripieni di confettura, e il latte dolce fritto.
Anche le bevande seguivano una tradizione precisa. "Si bevevano soprattutto vini dolci e frizzanti: Alicante, Asti spumante, rosolio". Bacigalupo, appartenente alla media borghesia, consumava vini di qualità superiore rispetto a quelli delle osterie popolari. Esisteva però un rito conviviale condiviso: una sola bottiglia che passava di mano in mano tra i commensali, un gesto che ricordava la grolla dell’amicizia.
Le feste non si concludevano con il Natale. Anche l’Epifania aveva un suo menù codificato, riassunto da un detto ancora oggi molto diffuso: "Epifàgna, gianca lasagna". Le lasagne, o mandilli, dovevano essere rigorosamente bianche, preparate solo con acqua e farina, senza uova. "Si condiscono con un sugo di carne, meglio se con un bel pezzo di lonza". Una cosa, però, non era ammessa: il pesto. "Era considerato un mangià ordinario, da tutti i giorni, quindi non adatto a una tavola di festa. Solo in tempi recenti è diventato un condimento prelibato".














