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Attualità | 27 ottobre 2020, 13:33

La filosofia della sconfitta nel bel libro di sport del pegliese Giorgio Barbareschi

Giocatore professionista di volley per 15 anni, ha dato alle stampe ‘Bisogna saper perdere’, nel quale racconta dieci affascinanti storie. “Perdere non significa fallire. Quello che conta è sempre come si scende in campo”

La filosofia della sconfitta nel bel libro di sport del pegliese Giorgio Barbareschi

“Io credo che alla sconfitta vada attribuita una grande dignità e per questo ho voluto raccontare le gesta di chi, anche senza vincere, ha comunque scritto una parte importante della storia dello sport. I protagonisti del mio libro sono gli atleti, ma lo sport è soltanto un’allegoria, perché le sconfitte sul campo rappresentano i fallimenti che incontriamo nella vita di tutti i giorni. Ma i risultati negativi non sono lo specchio di come siamo come persone, piuttosto lo è il modo in cui reagiamo ad essi”. 

In sintesi, ‘Bisogna saper perdere’, ovvero il titolo che Giorgio Barbareschi, un brillante ragazzo di 42 anni originario di Pegli, nel Ponente genovese, e giocatore di volley ad altissimi livelli per quindici anni (in serie A1 e serie A2) ha dato al suo volume, dove si raccontano ‘Le dieci sconfitte più incredibili, epiche e devastanti della storia dello sport’

Scritto in maniera eccellente e molto ben documentata, il libro, che è edito da Ultra Sport, casa editrice specializzata in prodotti di settore e da sempre con un ricco e interessante catalogo, porta la prefazione di Flavio Tranquillo, giornalista di Sky Sport, “uno dei più bravi e preparati secondo me - sostiene Barbareschi - difatti sono stato molto onorato del suo contributo”. 

Perdere non è mai bello, né è mai facile: e questa circostanza accomuna gli atleti dilettanti come quelli professionisti. Solo che i professionisti, specialmente alcuni, sono poi talmente di talento e forti dal punto di vista psicologico, oltre che da quello atletico, che sono capaci di rielaborare una filosofia della sconfitta, come Giorgio fa nel suo volume. Filosofia della sconfitta che non significa affatto ‘prenderla con filosofia’, al contrario: significa semmai saper usare la sconfitta, saperla sfruttare per imparare qualcosa, per crescere, per volgere un esito negativo a fattore positivo.  

L’autore, in queste centocinquanta pagine, e attraverso nobilissimi esempi presi un po’ da tutti gli sport, ci racconta che tutto questo è possibile. Non è una consolazione, non lo potrà mai essere. Ma una grande lezione sì. 

Barbareschi oggi vive a Mantova e lavora, in qualità di manager, per una multinazionale del settore energia con sede a Vicenza. Sposato con Cristina, ha un figlio di due anni e mezzo (“le più grandi vittorie della mia carriera”, scrive con amore nella dedica). In carriera ha giocato circa 350 partite nel volley professionistico e ha vestito la maglia della Nazionale ai Giochi del Mediterraneo nel 2005. 

“Quando ho smesso - ricorda - ho fatto per un anno e mezzo il direttore sportivo di una squadra di A2 e quel ruolo mi è piaciuto moltissimo. Servirebbero molti più ex atleti a fare i manager nello sport e non nascondo che proprio quello sarebbe il mio sogno. Ma, in Italia, fatta eccezione forse per il calcio, questo ruolo è ancora troppo limitato, al punto da non esser quasi considerato un lavoro vero. Non me la sentirei, invece, di fare l’allenatore: non entra nelle mie corde, l’allenatore dev’essere dotato di un’enorme pazienza che non credo di possedere”. 

Però Barbareschi si è dimostrato un bravo scrittore di sport e pure un ottimo motivatore: “Scrivo per diversi siti di sport americani, a cominciare dal basket, che è la mia grandissima passione e poi, sempre nel tempo libero, ho creato ‘tredicesimoround.it’, un portale dedicato al tema della motivazione nello sport e all’allenamento mentale degli atleti”. 

È proprio un’operazione di coaching mentale, oltre che una bella avventura dal punto di vista narrativo, raccontare la sconfitta attraverso dieci storie: “Nella scrittura mi definisco un autodidatta. È nato quasi tutto per caso. Ho messo giù le prime storie, che conoscevo, poi sono andato a cercarne altre che vagamente mi ricordavo. Alcune, infine, non le conoscevo per nulla e mi sono servite da stimolo e da esempio. Io con queste pagine ho voluto semplicemente dire che la sconfitta non è un fallimento, che se perdi dopo aver dato tutto in campo, non è un fallimento. La celeberrima frase attribuita al barone de Coubertin viene sempre proposta in forma ridotta: ‘L’importante non è vincere, ma partecipare’. In realtà, il barone aggiungeva ‘sapendo di aver fatto il massimo per raggiungere la vittoria’. Ecco, qui sta la chiave di tutto: fare sempre il massimo è il dovere di ogni atleta e, di fronte a questo, anche l’eventuale sconfitta avrà un sapore nettamente diverso. Personalmente, conosco e ho conosciuto molti vittoriosi che non sono affatto dei vincenti e, al contrario, molti sconfitti che non sono affatto dei perdenti. Contano l’atteggiamento mentale e l’impegno, conta saper onorare sempre lo sport, anzi lo Sport con l’iniziale maiuscola”. 

Giorgio ha maturato questa sua personale visione anche grazie a qualche bravo allenatore, ma soprattutto grazie al suo percorso di atleta e alla sua personale maturazione. “Prima di giocare a pallavolo -racconta - ho fatto moltissimi altri sport, tra cui il calcio. Quando da bambino giocavo nel Multedo, a una partita molto importante mi rifiutai di tirare un calcio di rigore. Sul dischetto andò un mio compagno che sbagliò. Non me lo sono mai perdonato ma, da allora, ho imparato che devo sempre prendermi le mie responsabilità, che devo essere io il protagonista nei momenti decisivi, ed è così che ho sempre voluto la palla ‘pesante’”. 

Sconfitta non significa solo perdere in campo, ma anche, prima della gara, quando il mister ti dice ‘tu oggi non giochi’. “Io l’ho sempre vissuta abbastanza male. A me è sempre piaciuto giocare, andare in campo. Ho sempre giocato in serie A2, ho fatto molta panchina in serie A1. Credo che fossi molto forte per la A2, ma non abbastanza forte per la A1. Però è sempre stata bellissima la sfida nel provare a guadagnarsi il posto”. 

Perché ci sono tante partite dentro e fuori da una partita, tante partite dentro e fuori dallo sport. Ecco il motivo per cui ‘Bisogna saper perdere’ è anche un bellissimo libro di vita. La lezione la si impara attraverso tante storie. Ce le riassume l’autore nella sua introduzione: “C’è chi ha vinto quasi tutto ma ha mancato proprio l’appuntamento più importante (l’Italia della pallavolo) e chi invece ha perso praticamente sempre, perlomeno nella corsa che amava di più (il ciclista Raymond Poulidor). C’è chi ha collezionato una devastante serie di rovinose cadute ma non ha smesso di rialzarsi (i Buffalo Bills del football americano) e chi dopo quasi quarant’anni ancora non riesce ad accettare il risultato del campo (gli Stati Uniti del basket). C’è chi ha vinto tanto ma viene comunque ricordata come perdente (la tennista Jana Novotna) e chi ha preferito la sportività alla vittoria, dimostrando il coraggio di andare oltre ai pregiudizi (il saltatore Luz Long). C’è chi è stato dominato dalla paura nel momento decisivo (il golfista Jean Van de Velde) e chi ha perso per la propria arroganza (il pugile Mike Tyson). Infine, c’è chi ha subito suo malgrado il lato malato dello sport (il tifoso di baseball Steve Bartman) e chi invece attraverso una partita ha scoperto un mondo nuovo (la Nazionale di calcio del Montserrat). 

Ci sono, soprattutto, l’orgoglio e la fervida capacità di voler e saper raccontare la pagina meno nota, ma che è forse la pagina più utile. Per chi gioca e per chi non gioca. Per tutti noi che viviamo.

Alberto Bruzzone

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