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Videogallery | 04 aprile 2024, 08:00

Testimonial del dialetto, alla scoperta degli antichi mestieri: le “baghe” dei mulattieri (Video)

Un tuffo nel passato, rigorosamente in genovese, con Giampiero Cella: il ricordo a Santo Stefano d’Aveto di chi trasportava il vino all’interno di otri di pelle di capra, simili a quelle ricordate nei poemi omerici

Testimonial del dialetto, alla scoperta degli antichi mestieri: le “baghe” dei mulattieri (Video)

Continua il ciclo di servizi de ‘La Voce di Genova’ che abbiamo voluto chiamare ‘Testimonial del dialetto’. Ogni giovedì vi faremo conoscere, o riscoprire, persone e personaggi che promuovono la lingua e la cultura genovese, con orgoglio, impegno, passione e tanto amore. E lo fanno sia in televisione che sui libri, che sui palchi di un teatro, sui social, alle conferenze, con la musica e le canzoni. Mirabile è l’azione di chi spende il proprio tempo per conservare una tradizione, ed ecco perché ci fa enorme piacere raccontarla. Anche attraverso video… ovviamente in genovese! 

Dopo l'intervista a Gilberto Volpara (si può leggere qui), al professore Franco Bampi (si può leggere qui), ad Anto Enrico Canale (si può leggere qui), a ‘Cito’ Opisso (si può leggere qui), a Francesco Pittaluga, (si può leggere qui), ai Buio Pesto: Massimo Morini e Nino Cancilla (si può leggere qui), al rapper genovese Mike fC (si può leggere qui), a Rita Bruzzone (si può leggere qui), ad Andrea Di Marco (si può leggere qui) oggi parliamo di entroterra con Giampiero Cella.

La tappa di oggi della nostra rubrica tocca i territori di confine della nostra regione tra Emilia e Piemonte. Ci spostiamo a Santo Stefano d’Aveto con Giampiero Cella, 65 anni, legatissimo al suo paese d’origine e alle sue tradizioni. Per anni ha lavorato allo stabilimento di Fincantieri di Riva Trigoso, ora in pensione porta avanti le tradizioni che gli hanno trasmesso i genitori. 

A Santo Stefano ci sono ancora giovani che parlano il dialetto?
"Sì, soprattutto nelle frazioni. A Santo Stefano meno. Si tende a insegnare l’italiano ai bambini, diventa poi difficile imparare il dialetto da grandi”. 

Tu hai sempre parlato in dialetto?
“Sì, sempre. In famiglia siamo in sei. Quando mi sento per telefono con le mie sorelle mi infastidisce quasi sentirle parlare in italiano”.

Le tue sorelle parlano in italiano con te?
“Sì ma io no: una parla in italiano e io in dialetto”.

Che lavoro fai?
“Ormai sono in pensione ma in cantiere ho provato a imparare il ‘rivano’ che è un dialetto diverso, contaminato in modo diverso da quello di Santo Stefano che ha influenze parmigiane, piacentine e piemontesi. Ci sono espressioni uguali alle nostre che ho ritrovato a militare parlando con i piemontesi. Non saprei farti esempi ma mi ricordo che c’erano parole che sembrano più simili al piemontese che al genovese. Probabilmente è dovuto al fatto che siamo una zona di confine, ci sono sempre stati scambi con la pianura, con l’Emilia. L’Aveto confluisce nel Trebbia e il Trebbia nel Po. Quindi siamo un po’ emiliani nonostante la Liguria ci abbia inglobato. Anche come diocesi siamo sempre stati emiliani: prima Bobbio e ora Piacenza. Probabilmente ora cambia nuovamente: sul giornale ho letto che prossimamente si passa alla diocesi di Chiavari”. 

Quali sono le parole che hanno derivazione emiliana?
“Ad esempio la ‘r’ che abbiamo molto più presente nel nostro dialetto rispetto al genovese classico, quella arriva dal dialetto parmigiano. Parmigiano che noi definiamo “barabban”, da Barabba. Con i parmigiani c’è sempre stata un po’ di rivalità”. 

Giampiero ricorda ancora degli scambi commerciali con le altre regioni, in particolare con la zona emiliana dove spesso si trasporta il vino nelle ‘baghe’, otri di pelle di capra, simili a quelle ricordate nei poemi omerici.

“Un tempo partivano da Santo Stefano e impiegavano due giorni tra andata e ritorno. Andavano per vino, dormivano fuori. I mulattieri tornavano con il vino conservato nelle pelli di capra, le ‘baghe’. Portavano due ‘baghe’ per ogni mulo, una di queste se la bevevano tornando a casa oppure riuscivano a togliere un po’ di vino per parte e aggiungere acqua al posto del vino”. 

La pelle della capra era ottenuta scuoiando l'animale con incisioni solo al collo e alle gambe e veniva sfilata dalla carcassa senza rotture. Era quindi seccata, conciata e cucita in modo da lasciare un unica apertura al collo. Il pelo dell'animale restava all'interno. Questi contenitori erano adatti per il trasporto a spalla o nella gerla e su cavalcature. Era utilizzata soprattutto per il trasporto del vino e dell'olio e poteva contenere anche cinquanta litri. 

Ci sono feste tradizionali a Santo Stefano simili a quelle che si festeggiano nel piacentino?
“Non saprei, non ci sono molti scambi da quel punto di vista, a parte gli scambi commerciali. Una volta si faceva una bella festa per carnevale dove si preparava la polenta all’aperto, tempo permettendo, nella piazza del castello. Era una polenta particolare con già dentro i pezzi di salsiccia. Si cuoceva con i pezzi di salsiccia dentro. Era già polenta e companatico. Molto buona e molto particolare”.

Un piatto tipico di Santo Stefano?
“I corzetti che ora si sono diffusi un po’ ovunque. A Santo Stefano sono molto particolari e diversi da quelli che si trovano in giro. Si utilizzano stampi di legno: con la parte sotto si taglia la pasta e sopra c’è la parte per sagomarli. Sono grossi 65 millimetri, anche di più. In giro invece si vedono corzetti molto più piccoli. Poi sono fatti con la pasta all’uovo e non bianca”.

Vengono conditi con la salsa di noci?
"No, con il sugo di funghi. A Santo Stefano rigorosamente con il sugo di funghi. A Santo Stefano la salsa di noci è arrivata circa trent’anni fa. Da noi ci sono funghi ovunque, mettiamo da parte molti funghi secchi e d’inverno…”

Marco Garibaldi

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