A Genova, la Pasqua a tavola si celebra attraverso piatti che, da secoli, raccontano al fede, la stagionalità e quella che potrebbe a tutti gli effetti sembrare una necessità tutta tipica di unire semplicità, ingegno e recupero.
La tavola delle festività pasquali è una tavola che racconta attraverso la memoria e nel rituale dei gesti ha il suo punto di forza.
Protagonista per eccellenza, è la torta Pasqualina, una torta salata che affonda le sue radici nel Cinquecento e che conserva, se fatta secondo tradizione, una preziosa struttura simbolica.
Nella versione tradizionale, si prepara con trentatré sottili strati di sfoglia, come gli anni di Cristo, e un ripieno di bietole, uova intere e prescinsöa, il formaggio fresco tipico genovese.
In passato, le famiglie la portavano a cuocere nei forni pubblici, incidendo le iniziali sul bordo per distinguerla. Oggi proposta anche in diverse varianti, questa torta è ideale anche per il giorno di Pasquetta (sempre che si possa godere della clemenza del tempo e fare un picnic).
Accanto a lei, sulle tavole genovesi, non manca l’agnello al forno con patate novelle, piatto che unisce la liturgia cristiana al legame con l’entroterra. L’agnello, cucinato con vino bianco, alloro e rosmarino, è il simbolo del sacrificio, ma anche della rinascita primaverile. Le patate novelle lo accompagnano con delicatezza, segnando l’arrivo della nuova stagione.
Un altro capolavoro di ingegno e pazienza è la cima alla genovese, citata perfino da Fabrizio De André nella sua celebre ’Â çimma. Si tratta di un involto di pancia di vitello ripieno di piselli, uova sode, formaggio, pane e aromi, cucito e lessato, poi servito freddo a fette. È l’esempio probabilmente più alto della cucina del “nulla” che ha nella sapienza del combinare ingredienti avanzati il suo valore aggiunto.
Più raro, ma dal fascino antico, è il piatto delle lattughe ripiene in brodo. Antico piatto cerimoniale, oggi quasi scomparso, prevedeva l’uso delle foglie di lattuga come scrigni per un ripieno di carne tritata, funghi e uova, servito in un brodo ricco. Ne parlò anche Nicolò Bacigalupo, poeta dialettale genovese, a conferma del suo valore simbolico. Un piatto d’altri tempi, che meriterebbe di essere riscoperto.
Non è Pasqua se non si conclude con il dolce.
Attenzione però perché a Genova non si mangia la colomba, o meglio, non solo. Sulle tavole della Superba era tradizione accogliere i Cavagnetti, piccoli cestini intrecciati di pasta frolla a cui centro era posizionato un uovo sodo, simbolo di vita e di rinascita.
Originari della Val di Vara, sono diventati un dolce tipico della Pasqua genovese. Si portano in chiesa per la benedizione, si regalano ai bambini, si conservano come piccolo oggetto di festa.
Il giorno di Pasquetta, la festa si sposta nei prati o nelle alture vista mare. Il cestino del picnic è fatto di avanzi intelligenti: Pasqualina, cima fritta in padella, frittate di carciofi o cipolle, accompagnate da fave fresche e sardo giovane, binomio classico che sa di primavera. È un pranzo libero, ma profondamente legato alle radici.
A concludere, i quaresimali genovesi, biscotti leggeri a base di albumi, cacao e mandorle, nati nel periodo di digiuno e penitenza, ma sopravvissuti fino a Pasqua, come a ricordare che ogni rinuncia può essere riscattata dalla dolcezza.
Ma perché, a distanza di secoli, questi piatti resistono?
Il chiacchiericcio del centro storico fa incontrare tante voci e chi ancora tiene alla tradizione afferma che si tratta di gesti che racchiudono l’identità di una terra e di chi la abita, tramandando così una storia unica.