Ogni domenica 'La Voce di Genova', grazie alla rubrica ‘Gen Z - Il mondo dei giovani’, offre uno sguardo sul mondo dei ragazzi e delle ragazze di oggi. L'autrice è Martina Colladon, laureata in Scienze della Comunicazione, che cercherà, settimana dopo settimana, di raccontare le mode, le difficoltà, le speranze e i progetti di chi è nato a cavallo del nuovo millennio.
Per anni il la lingua genovese è sembrata destinata a sparire dalle nuove generazioni. Troppo distante, troppo legato a un mondo che non c’è più, troppo poco utile nella quotidianità digitale. Eppure, anche tra gli under 30, c’è chi il genovese non solo lo conosce, ma lo parla. Non come una curiosità da mostrare una tantum, ma come qualcosa che fa parte della propria identità.
Matteo ha 25 anni, vive a Genova e il genovese lo ha imparato senza accorgersene, semplicemente standoci a contatto. In casa, i genitori non lo parlano, e neanche i suoi amici. "Forse qualcuno sa qualche parola, o un’espressione tipica - racconta - ma nessuno lo parla davvero".
È con i nonni che tutto ha avuto inizio. In famiglia il dialetto non era la lingua principale, ma era sempre presente: nelle conversazioni, nei modi di dire, nei racconti. Parole che da piccolo gli suonavano familiari, anche se non le capiva del tutto. Col tempo ha iniziato a riconoscerle, a inserirle nel suo lessico, fino a usarle naturalmente in certi contesti.
Il genovese, per lui, non è stato una lingua da studiare ma da assorbire. E questa esposizione, seppur discontinua, ha creato una base solida. Non una competenza scolastica, ma un’abilità reale nel capire, e spesso anche nel parlare, una lingua che molti suoi coetanei sentono lontana.
Un ruolo importante, in questo percorso inconsapevole, l’ha avuto anche Calasetta, in Sardegna, sull'Isola di San Pietro, dove Matteo trascorre da anni le vacanze estive. Lì si parla il tabarchino, un dialetto che affonda le radici nel genovese antico, portato sull’isola dai coloni liguri nel Settecento. Il suono è diverso, più cantilenato, ma molte parole e strutture sono simili. La frequentazione costante di quel contesto ha rafforzato la sua familiarità con certe espressioni e ha riattivato legami linguistici che, pur in forme diverse, appartenevano anche al suo vissuto.
E così, tra i racconti dei nonni e le estati in un’isola apparentemente lontana, Matteo ha costruito un rapporto personale con il genovese. Un rapporto che non condivide con la maggior parte dei suoi pari, ma che vive con naturalezza. Non come missione linguistica, non per nostalgia, ma come parte di sé.
Nel suo gruppo di amici, il dialetto è quasi assente. A volte salta fuori in qualche intercalare, una frase buttata lì per ridere, o una parola che fa parte del gergo giovanile. Ma per il resto è qualcosa che resta legato a un’altra generazione. Questo non lo scoraggia, ma lo rende consapevole. Parlare genovese, oggi, è quasi un atto di resistenza silenziosa. Non una rivendicazione, ma una scelta che si porta dietro un senso di appartenenza.
Matteo non idealizza il dialetto, né pensa che debba tornare a essere la lingua di tutti. Ma riconosce il valore di saperlo, di capirlo, di non averlo lasciato scivolare via. Se un giorno avrà dei figli, forse non lo insegnerà in modo sistematico. Ma, come è successo a lui, lo lascerà affiorare: una parola ogni tanto, un modo di dire, qualcosa che resti. Perché, come dice un vecchio proverbio ligure che ha sentito tante volte dai nonni: a l’é mêgio parlâ che perde - meglio parlarlo che perderlo.














